Nel 1936, durante il suo primo soggiorno in Unione Sovietica, Franco Venturi fu colpito dal silenzio imbarazzato che circondava la storia del movimento rivoluzionario ottocentesco, noto come narodnicestvo, ossia come «populismo». Una reticenza comprensibile. Stalin aveva appena realizzato la collettivizzazione forzata delle campagne, cancellando così ogni traccia di quelle «comuni agrarie» (obšcina) che rappresentavano un’antichissima forma di autogestione contadina, basata sulla produzione collettiva, ignara del concetto stesso di proprietà privata. È proprio in nome delle comuni agrarie contadine che si erano battuti i socialisti russi della prima ora, i narodniki.

Pensiero critico e prassi sovversiva furono un loro appannaggio esclusivo dopo la sconfitta dell’insurrezione decabrista e prima della diffusione in Russia del marxismo, a fine secolo. Marx stesso negli ultimi anni della sua vita s’interessò all’esperienza di comunismo pre-capitalistico abbozzata dalle obšciny.

Nel 1947, Venturi tornò a Mosca in veste di addetto culturale dell’ambasciata italiana. Aveva alle spalle una lunga militanza antifascista, l’esilio in Francia, l’attività clandestina nella Resistenza, la partecipazione al movimento socialista e libertario di «Giustizia e Libertà». E nei tre anni successivi del suo servizio diplomatico si immerse ogni sera, alla Biblioteca Lenin, in un lavoro di ricostruzione della storia del movimento populista russo. Riuscì così a riscattare, sottraendole alla poubelle de l’histoire nella quale erano ormai sprofondate, le vite di centinaia di uomini e donne accomunati dal desiderio di vedere il cosiddetto «popolo» – masse di servi o ex-servi della gleba – trasformarsi in quella che Walter Benjamin avrebbe chiamato la «classe vendicatrice, che porta a compimento l’opera di liberazione».

I maîtres à penser
Lo studio di Venturi, che resta ancora oggi l’opus magnum sui movimenti rivoluzionari russi dell’Ottocento (opus mai tradotto in russo) venne pubblicato da Einaudi nel 1952 con il titolo Il populismo russo e la dedica a Leone Ginzburg. Ci fu una seconda edizione, nel 1972, ampliata e rivista. Introvabile da decenni, leggendario ma non più letto, Il populismo russo è ora restituito all’esistenza mondana che merita dalla casa editrice Mimesis (introduzione di Daniela Steila, vol.I, pp. 518, euro 25,00, vol. II pp. 494, € 25,00, vol. III pp. 460, euro 25,00).

Tre imponenti volumi narrano il tentativo, tenace e sempre più disperato, di risvegliare le masse contadine, così da innescare in Russia una rivoluzione popolare, decentrata, dal basso. Il finale è tragico, e non solo per la sconfitta politica, le forche e la Siberia. Amara è soprattutto la sordità dei contadini a ogni istanza sovversiva, il loro ostinato affidare le proprie speranze di giustizia allo zar. Il primo volume è dedicato a tre maîtres à penser del movimento, molto diversi tra loro: Herzen, Bakunin, Cernysevskij. Padre della dottrina del «socialismo russo», Herzen individua per primo nella comune agraria il possibile perno di una società egualitaria. Grazie a lui, queste ataviche comunità contadine saranno il riferimento obbligato di coloro che intendono scongiurare l’avvento del capitalismo in Russia.

Molte le divergenze in seno al populismo circa i mezzi da usare per elevare l’antica obšcina al rango di nuovissima istituzione politica. Si sa che Bakunin riteneva che soltanto una violenta rivolta dei contadini avrebbe potuto conferire dignità alle comuni agrarie. L’opera di Cernysevskij ebbe un grande peso tra i giovani del movimento, che trovarono nel suo romanzo Che fare? – composto nel 1863, mentre l’autore era detenuto nella fortezza di Pietro e Paolo – istruzioni concrete per una condotta all’altezza dei propri ideali.

Il secondo volume, titolato Dalla liberazione dei servi al nichilismo, racconta le vicissitudini dei movimenti studenteschi e contadini sorti a ridosso dell’epocale decreto zarista del 19 febbraio 1861, che con una mano liberava giuridicamente i lavoratori delle campagne dai loro padroni e, con l’altra, li condannava a inedite forme di schiavitù economica. Sono gli anni dell’emancipazione femminile, del fallito attentato di Karakozov allo zar Alessandro II, dell’eclatante e controverso affaire Necaev. Fu allora che per il populismo si cristallizzarono due prospettive inconciliabili: agire subito, prima che il capitalismo incipiente disgregasse le comuni agrarie; oppure dedicarsi a una lunga e paziente opera di propaganda. Imboccando la seconda via, migliaia di studenti «andarono al popolo» con una sorta di esodo verso le campagne.

Il terzo volume dell’opera di Venturi, titolato Dalle andate nel popolo al terrorismo, si apre raccontando episodi e stati d’animo di questa migrazione di massa. Nella cosiddetta «estate folle» del 1874 prevaleva la voglia di rinunciare a qualsiasi privilegio, liberandosi finalmente del «debito» contratto nei confronti del popolo. Vivere in mezzo ai contadini, vincerne la diffidenza, istruirli con umiltà: fu un moto morale più che politico, certamente non promosso da un comitato centrale. Vestiti da mužiki, questi populisti si affrettarono a imparare un lavoro manuale: diventarono operai, ciabattini, falegnami, fabbri. Spiegavano al popolo che la terra è un bene comune, che accettare l’ingiustizia è ingiusto. Il risultato fu però catastrofico. Denunce (spesso da parte dei preti del villaggio), arresti, processi.

Illusi e sconfitti
Costretto a perdere la propria innocenza, il movimento accettò il ricorso ad azioni di guerriglia contro lo Stato autocratico. Il fallimento dell’«andata nel popolo» rese inevitabile la cospirazione clandestina e, quindi, la costruzione di una organizzazione centralizzata. Nasceva così Zemlja i volja (Terra e libertà). Lo sparo di Vera Zasulic contro il governatore di Pietroburgo, il generale Trepov, inaugurò la sequenza di attentati politici dell’anno di piombo per eccellenza, il 1878.

Il terrorismo populista, rivolto dapprima contro ufficiali della gendarmeria, non tardò tuttavia a eleggere a proprio bersaglio la persona stessa dell’imperatore. Sarebbe stata la nuova organizzazione Narodnaja volja (Volontà/libertà del popolo), anzi il suo Comitato esecutivo, ad addossarsi il compito di colpire il potere autocratico nel modo più incisivo: assassinando lo zar. Un assassinio cui forse sarebbe seguito un sollevamento popolare.

Si arrivò così a quell’acme che fu insieme una fine: l’attentato contro l’imperatore Alessandro II, eseguito con successo il primo marzo 1881. A causa di un improvviso cambiamento di percorso della slitta che trasportava lo zar, anziché la dinamite, i militanti della Narodnaja volja dovettero utilizzare bombe a mano fabbricate artigianalmente. Alessandro II e il narodik attentatore morirono.

Il governo paventò scioperi e insurrezioni. Accadde ben poco: nelle campagne l’omicidio fu attribuito per lo più ai proprietari terrieri, ostili a uno zar che avrebbe voluto aiutare i contadini. Al termine del processo officiato da un tribunale militare, cinque narodniki furono condannati a morte. A vendicarli provvide, più di trent’anni dopo, una generazione che aveva imparato molto dalla loro sconfitta, ma anche condiviso gran parte delle loro illusioni.

Non c’è dubbio che il compito di salvaguardare il ricordo di coloro che tutto sacrificarono nel nome della giustizia sociale e della libertà, era sentito da Venturi anche come «una questione privata». Da grande storico, però, egli riesce ad assolvere nel migliore dei modi il duplice compito che gli sta dinanzi: combinare la duttile comprensione dei punti di vista e dei fini soggettivi dei propri personaggi con una fredda valutazione della portata oggettiva della loro azione.