La sua biografia lo racconta come «antropologo e filmmaker» ma anche «urbanista e viaggiatore», qualcuno insomma che il mondo lo narra con uno sguardo mutevole, che non si lascia imprigionare da un’unica «specializzazione» e che invece nei suoi «vagabondaggi» tra Vietnam, Cina, Africa e Amazzonia prova a costruire sinergie, a intessere trame, relazioni, partendo a volte da un dettaglio semplice, e sempre da qualcosa che lo appassiona. Del resto tra i suoi libri ce ne è uno intitolato al jet-lag (Jet-lag. Antropologia e altri disturbi da viaggio, 2017, Meltemi) e ora  sta per arrivare Il punto G dell’uomo. Antropologia del desiderio maschile, Milieu) in cui appunto questo desiderio viene esplorato cercando nuovi equilibri nel rapporto col femminile. Franco La Cecla è poi regista, con In altro mare (premiato al San Francisco Ocean Festival) ha affrontato al questione dell’immigrazione ricostruendo la storia della pesca in alto mare praticata oggi da una comunità di pescatori di Terrasini che vive da cinque generazioni sull’Atlantico – e quando ci parliamo è al lavoro su un nuovo progetto.

Lo spunto della conversazione è però il suo storico libro Perdersi. L’uomo senza l’ambiente – uscito in una nuova edizione per Meltemi – un viaggio negli insediamenti umani che compone geografie fisiche e mentali, e che soprattutto si confronta con quello spazio pubblico che la pandemia ha messo in discussione in ognuna delle sue forme, dal rapporto casuale e quotidiano con l’altro (e l’altrove) alla fruizione collettiva dell’arte, la sala cinematografica, i teatri, i musei tutti chiusi – e non solo in Italia – da mesi. Lui lo chiama «un diverso tipo di smarrimento» rispetto al perdersi in luoghi lontani. Ci parliamo su zoom nonostante la condivisa scarsa simpatia verso gli universi digitali.

Un anno di pandemia ha determinato un cambiamento profondo nelle nostre relazioni, nel modo di lavorare, nel rapporto «fisico» con la realtà. E quello spazio pubblico che è la città tutta o una sala cinematografica o un teatro ha subito una forte erosione. Nell’introduzione alla nuova edizione di «Perdersi» scrivi: «Forse il vero pericolo della condizione attuale è che l’importanza dello spazio pubblico , che avevamo da poco riscoperto, venga rimossa da presunti meccanismi di sicurezza». Lo spazio pubblico è destinato a scomparire?
Nonostante il digitale gli eventi importanti accadono quando la gente scende in piazza: la rivoluzione egiziana a Tahrir, le proteste a Gezi Park, o a Hong Kong che in questo senso è emblematica, è una città ipermoderna dove i giovani vogliono riaffermare l’importanza politica dello spazio pubblico nonostante la repressione. Anche nell’era del digitale dunque politicamente la piazza, l’ occupazione fisica del mondo è prioritaria. La situazione attuale ci dice anche che la pandemia è connessa – nella sua percezione – alla paura che la globalizzazione mostra nei confronti degli spazi pubblici, la sua natura astratta, finanziaria non prevede infatti una geografia dei luoghi concreta. Il rapporto tra la pandemia e il digitale è stato indrizzato anche in questa direzione, il fatto di trovarsi su uno schermo o di essere dietro a una mascherina non presenta grandi differenze, il digitale impedisce di guardarsi negli occhi, il mondo è privo di rapporti reali ma la premessa della pandemia ce lo rende accettabile. Naturalmente una lettura solo complottista del binomio pandemia/digitale sarebbe stupida. Il digitale esiste, ce ne serviamo –- pure se ci siamo stancati – e farà sempre più parte del nostro futuro, pensiamo ai progetti delle «Smart City». Al tempo stesso gli spazi reali in cui la gente si incontra non possono essere interamente sostituiti da quelli virtuali. Passata la sbornia digitale le città torneranno a essere uno spazio pubblico fisico, e non dobbiamo dimenticarci che questa è l’unica dimensione in cui pure con milioni di telecamere c’è qualcosa che sfugge al controllo – e che quindi non funziona secondo le logiche dei nuovi poteri. È lì che nascono le spinte della democrazia.
D’altra parte va riconosciuto che dal punto di vista sanitario le città come sono state fatte finora non funzionano: è assurdo che nonostante la pandemia si continua a ammorbarci con le macchine, coi Suv, che rispetto all’inquinamento mondiale non si prendono provvedimenti. Potrebbe accadere come nell’Ottocento quando si è capito di doversi difendere dalla tecnologia a Parigi sono nati i passages, a Milano la galleria, spazi pubblici protetti, dove si può camminare senza essere investiti, senza interferenze con altre cose. Questo però contrasta con la tendenza a costruire edifici ovunque come se lo spazio pubblico abitabile fossero solo gli appartamenti e non un marciapiede o una piazza.


Nell’anno della pandemia lo spazio «privato» della casa è divenuto «pubblico»: la scuola in dad nelle camerette, le conferenze, persino la campagna elettorale in America proponeva come sfondo dei candidati dettagli delle loro abitazioni. Eppure invece di raccontare le persone questa intimità in molti casi le fa apparire ancora più distanti.
Forse perché questi interni domestici sono quasi tutti uguali, a dirci di un’uniformità nel privato che parla pochissimo di chi lo vive. Le case sono svuotate di senso, avevamo iniziato a abitare il mondo e poi le città non sono riuscite a dare un nuovo senso agli spazi privati. Questa mancanza di appartenenza è ancora più forte nonostante la pandemia. Ho l’impressione che la gente si identifichi sempre meno con la propria casa, quasi come se vivesse una crisi simbolica che si porta dietro quei progetti di quartieri residenziali che non dicono nulla. Si è persa la capacità di ri-significare i luoghi, si possono trovare diversi significati dove c’è confusione, nei mercati, laddove si vive «fuori»: mi vengono in mente a Palermo certi quartieri popolari in cui le persone stanno sedute davanti alla casa, o sono continuamente in giro, abitano cioè gli spazi pubblici non secondo la contrapposizione di esterno/interno. Mentre le zone più borghesi della città hanno perduto qualsiasi capacità di invenzione.

Come pensi ritorneremo alla fisicità del mondo una volta finita l’emergenza sanitaria?
Spero che tutto questo crei una convalescenza che ci porti a riprenderci il mondo un po’ alla volta. Il fatto è che ci sono paesi in cui lo spazio pubblico faceva paura già prima, penso alla Francia dove negli ultimi anni è stato vissuto con terrore – e lo dimostra la politica messa in atto dal governo contro ogni protesta sociale. O a città come New York in cui l’assembramento è proibito da sempre. Durante il lockdown della scorsa primavera ero a Palermo, ogni giorno le donne uscivano in balcone a stendere i panni mentre gli uomini scendevano in strada per accendere le automobili parcheggiate. Quando si è riaperto invece di andare in spiaggia in tantissimi sono andati al cimitero, era un modo per muovere la macchina facendo avanti e dietro. È assurdo, e credo che sono queste abitudini le prime a dover essere modificate.

E i cinema, i teatri? Sono anch’essi uno spazio pubblico.
Non capisco perché non si è programmata una stagione cinematografica o teatrale all’aperto, in un paese come l’Italia abbiamo tantissimi anfiteatri, sono luoghi storici che permetterebbero lo svolgimento di un cartellone già da ora, e dove si potrebbero anche ospitare le proiezioni. Tra l’altro una gran parte è inutilizzata da decenni, era anche una bella occasione per recuperarli. E poi non dimentichiamoci che la tragedia è nata all’aperto e a Atene può fare anche molto freddo. Credo che il recupero dei piccoli centri sia un’altra possibilità di resistenza, è nei luoghi considerati marginali che oggi ci si può «perdere», in quegli interstizi fuori dal controllo. Ci sono infiniti borghi abbandonati in Italia, la loro storia è quella tremenda di tutto il Paese; anche quello è un territorio in cui perdersi.