Il covid ha portato via anche lui: Franco Giraldi, classe 1931, è morto a Trieste il 2 dicembre. Una vita piena, combattuta, libera. Nato da madre slovena e padre italiano dell’Istria, entrambi insegnanti, è stato fin da piccolo immerso in un ambiente multiculturale, tra il Carso e Trieste e poi a Roma, a vent’anni, dove vivrà nel mondo del cinema con grandi capacità eclettiche e una ricchissima produzione in parte, purtroppo, perduta.

Infanzia diversa, particolare, come sono gli anni trenta e poi avanti sul confine orientale: con la bella stagione la famiglia vive a Barcola, rione sloveno affacciato al lungomare che porta dritto al castello di Miramar. Franco Giraldi ricordava sorridendo quelle spensierate estati di bambino, i vestiti nascosti tra gli scogli e le nuotate fino al Bagno Excelsior per non pagare l’ingresso e mescolarsi alla buona borghesia triestina che prende il sole dalle terrazze. E poi le lunghe camminate fino al Carso e ancora oltre per raggiungere Komen e Štanjel, due paesi del goriziano: anni in cui si cammina tanto, in una spola continua tra i paesini sparsi dell’altopiano, la bicicletta qualche volta e l’ultimo pezzo con il tram che dal costone carsico arriva in città. Padre e madre sempre in movimento, tra confino e peregrinazioni dall’Africa all’Italia e Franco passa molti anni a Trieste, a Barcola, dove vive con il fratello della madre e un paio di cuginetti.

1941, a Trieste arriva per la seconda volta il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato e suo zio è tra i 60 imputati: intellettuali di area liberale e cristiana, comunisti, funzionari o simpatizzanti del PCI, membri del TIGR sloveno. Nove sentenze di morte e 963 anni complessivi di carcere. La mamma di Franco porta i figli a Komen e poi a Štanjel così Franco riprende la scuola ma continua il suo peregrinare tra il Carso e Trieste. Vede da vicino la nascita delle formazioni partigiane, è ancora un ragazzino, e segnala gli arrivi dei tedeschi che rastrellano la zona. Assiste alla distruzione di Branik e di Komen e agli attacchi partigiani ai quali partecipa anche suo fratello Silvano inquadrato nel Battaglione triestino.

Agosto 1944, mentre torna in bicicletta da Trieste, vede una enorme colonna tedesca con autoblindo e carri armati; uno degli autisti, tutti italiani, gli chiede quanto ancora sia distante Štanjel e Franco capisce: pedala come un forsennato verso il suo paese e lancia l’allarme a tutti lungo la strada. La mattina dopo la battaglia è tremenda, i partigiani attaccano in forze, le perdite tedesche sono cospicue, molti tedeschi e italiani sono fatti prigionieri e trasferiti all’interno della Slovenia. Ma bastano pochi giorni e la scure della vendetta si abbatte feroce: mamma e figli scappano a Kruševica e da lì vedono alzarsi alte le fiamme che distruggono Štanjel.

Si torna a Trieste, allora, e i ragazzini di casa Giraldi sono ormai convinti della necessità di contribuire alla lotta di liberazione anche con i pochi mezzi della loro giovane età. La sorella di Franco, Giuditta, ormai diciottenne, raggiunge le formazioni partigiane nella Selva di Tarnova e Franco si dedica a piccole azioni di disturbo con i suoi cuginetti Saša e Jano: tagliare le capote delle macchine tedesche, bucare le gomme, scrivere sui muri e, la cosa più rischiosa, aprire la porta di qualche bar e buttare dentro manifestini. Lo ha ricordato in una intervista ad Alessandro Cattunar di Quarantasettezeroquattro nel 2009: «Una volta ho tagliato la linea telefonica fra Barcola e Contovello: era un filo, un filo, non era niente: sono andato lì e ho tagliato, con un ragazzino della casa vicino.

Ma poi lui si è spaventato quando sono arrivati i tedeschi e ha detto che ero stato io e così sono stato interrogato a lungo da un ufficiale delle SS. Per tutto il pomeriggio a Via Bonafata, credo nella casa che era di Giorgio Strehler ed era rischiosissimo, ero veramente piccolo, 11 anni scarsi, se mi fossi spaventato, avrei fatto dei danni tremendi perché passavano tutti da casa nostra: quelli che venivano dal bosco e quelli che ci andavano. Ho fatto anche il furbo, li guardavo e avevo la faccia … a Roma si dice ’la faccia come il culo’, proprio non facevo una piega. È finita bene, meno male.»

Franco Giraldi ricorda anche la Liberazione: è con un gruppo di ragazzini e tolgono i fucili ad un gruppo di ausiliari austriaci ma non c‘è da sparare, non succede niente, gli austriaci se ne vanno disarmati, sono anziani, poveracci, ormai l’esercito tedesco è alle corde.

I neozelandesi arrivano contestualmente agli jugoslavi a Trieste. Arrivavano i partigiani ma Giraldi per primi, da Barcola, vede i neozelandesi, poi trattative ad alto livello e il 12 giugno del ’45 gli Jugoslavi se ne vanno. Era tale la gioia per la vittoria, la cosiddetta democrazia, la vittoria sui tedeschi, sui fascisti, che non si badava molto a quanto stava succedendo. Ma Franco sa che non ha studiato, è arrivato in prima media ma senza quasi avere toccato libro durante la guerra tra rastrellamenti, fughe, paesi bruciati… così vuole passare un anno in un collegio di preti a Gorizia. Dice: «Ero un po’ matto, figurarsi, già non ero più religioso, già non me ne fregava più niente, poi avevo visto i partigiani… però avevo questa convinzione: che lì potevo isolarmi e studiare. Se stavo fuori, tra l’attività politica eccetera non avrei fatto niente».

In casa c’è sempre un gran viavai di persone e dibattiti molto intensi. Un’area cosmopolita e internazionalista, senza dubbio, vicino alla quale comincia ad affacciarsi sempre più determinata la parte più nazionalista slovena che rivendica non soltanto libertà e giustizia ma anche proprietà territoriale.

Per un paio d’anni lo stesso Partito Comunista triestino è dominato dagli sloveni e sembra davvero che la città debba diventare la VII repubblica federativa jugoslava ma questo non piace a tutti, non a Franco Giraldi che continua a sognare un mondo libero e comunista magari nel mito dell’Unione Sovietica. Franco ha lottato per i diritti degli sloveni ma vuole sia applicato il Trattato di Pace: che Trieste resti un territorio libero.

Partecipa a tante manifestazioni, si sente di appartenere a una parte, ma sente sempre più forti le contraddizioni, i cambiamenti, l’imporsi di nuove priorità: «gli operai del cantiere San Marco venivano a queste manifestazioni dove c’era la bandiera slovena ma loro erano internazionalisti, come tradizione operaia».

Questo dualismo vale anche per gli sloveni: a Santa Croce/Sveti Kriz per esempio, nel Carso proprio sopra Trieste, c’è una sicura tradizione internazionalista, si è superato il nazionalismo, si è legati alla tradizione degli anni venti, mentre magari nel paese confinante c’è un forte nazionalismo sloveno. Una situazione complicata.
E gli americani a Trieste? Per Franco Giraldi significano cinema. Odio implacabile di Dmytryk, La città nuda di Dassin, poi Siodmak con La scala a chiocciola. Vengono recuperati tutti i film non proiettati durante la guerra e Franco va al cinema, sempre, comunque. Poi, finito il periodo della guerra, comincia a nascere una certa meravigliosa critica cinematografica e due grandi, Callisto Cosulich e Tullio Kezich, quelli che ritiene i suoi maestri.

È il 1952 e Giraldi si trasferisce a Roma a casa di Gillo Pontecorvo cominciando così quella che sarà una ricca e varia attività professionale, dentro e a fianco del cinema. Girerà Per un pugno di dollari con Sergio Leone («Sergio girava di giorno con Clint Eastwood e io di notte con Gian Maria Volontè») ma lascerà una profonda testimonianza spirituale in La frontiera, perché conosce bene la crudeltà dei confini, e nella produzione televisiva Un anno di scuola, quel 1913/14 triestino con Edda, ragazza boema unica donna iscritta all’ultima classe del liceo, le sue ribellioni al conformismo ed i turbamenti dei suoi compagni maschi, fino ad una cena di maturità venata di malinconia proprio lo stesso giorno dell’attentato di Sarajevo, miccia che avrebbe fatto esplodere la guerra e cancellato un mondo.