Erica e il diavolo è un grande quadro del 1960, appartenente a una piccola serie di opere che preludono a uno dei cicli più feroci dipinti da Franco Francese (Milano 1920-’96), che va sotto il titolo generale de La bestia addosso: un senso di paura, dirà Vittorio Sereni nel 1976 per la piccola e preziosa monografia sul pittore voluta da Vanni Scheiwiller, che avvinghia figure isolate e solitarie braccate dalla notte, o prigioniere di un impasto pittorico denso e caliginoso. Provoca una forte impressione incontrare questo dipinto nelle sale della «Collezione d’arte Matasci Il deposito» di Cugnasco-Gerra, piccola frazione ticinese nei pressi di Tenero, dove Mario Matasci ha tenuto fino a tutti gli anni ottanta una galleria promuovendo una linea espressionista dell’arte contemporanea fra Lombardia e Svizzera mosso dalla passione compulsiva del collezionista, dalle cui raccolte sono nate monografie compatte come mattoncini, preziosi punti di riferimento.
Ora, nel «deposito» dove ha dato casa alla propria raccolta, squaderna fino al 17 febbraio le oltre centoventi opere di Francese che ha raccolto nel tempo, confermando come una pittura austera, che non concede niente al fruitore, possa suscitare un collezionismo di affezione che si nutre di grandi numeri, di un accumulo desideroso di arricchirsi di dipinto in disegno, fra piccole testimonianze quotidiane e grandi tele che hanno segnato i punti cruciali di una storia: «non è mai, o quasi mai – scriveva Sereni –, un artista gradevole. Ma subito dopo, abolendo d’un colpo ogni esca di piacevolezza, appassiona».
I destini della Nuova Figurazione
Ripercorrere da un capo all’altro la ricerca del pittore milanese nella scansione iconografica dei suoi cicli di lavoro consente di constatare delle costanti e dei momenti di rottura che ne fanno un punto di riferimento per comprendere i destini della pittura a Milano per un lungo tratto del dopoguerra. In Francese, infatti, si riconoscono i prestiti lessicali da altri pittori, ma ripensati come elementi da usare per un nuovo racconto tutto interiore: il mondo di fuori, compreso quello artistico, rifluisce in un registro di cose viste e di sensazioni visive. Erica e il diavolo, ad esempio, fa i conti con la tache di Nicolas De Staël, a cui accenna brevemente in un appunto del novembre 1958 nel suo Diario intimo 1935-1995, dato alle stampe da Francesco Porzio nel 2002: riflettendo sui destini della Nuova Figurazione, a cui si stava avvicinando aderendo allo slancio di una generazione più giovane, il pittore russo naturalizzato francese gli appariva l’unico esempio di una «terribile grazia apollinea», ma privo di quel «valore attualistico di un nodo etico-drammatico, di un vitalismo del sangue» di cui aveva bisogno la nuova pittura.
Ciononostante Francese non aveva ignorato la lezione informale, accettando anzi di misurarsi a caldo anche con le prime tele di Rothko che si erano potute vedere a Milano nel 1959 e trasformandone la campitura nella vibrazione atmosferica di un notturno visto alla finestra: segno e materia erano diventati strumenti linguistici per dare sostanza all’immagine, poco prima che anche lui dovesse trovarsi a fare i conti – risolvendoli – con la monade di Francis Bacon, di cui sentirà l’urto senza farsene sopraffare, anzi riconducendola alla propria intima e cupa radice.
Si è parlato spesso di pittura come «diario», confondendo forse la pratica diuturna della pittura che ritrae il proprio spazio circostante, popolato di visioni e di bagliori, con la trascrizione di una biografia raccontata per immagini: si trattava, come osservò sempre Sereni, di una «disposizione inizialmente istintiva poi sempre più consapevole in Francese di porsi di fronte alla realtà da una parte e al fatto pittorico dall’altra». Ossessivamente, egli torna ciclicamente sugli stessi temi, dalla Convalescenza al libero d’aprés su La Malinconia del Dürer: li ripete e rielabora con variazioni, facendo coincidere le stagioni della propria vita artistica con precise iconografie alle volte ispirate da occasioni domestiche.
Alle origini di quel dipinto del 1960 – in cui Marco Züblin, nella prima monografia dedicata da Matasci a Francese nel 1988, aveva riconosciuto una discendenza dalla Pietà Rondanini –, stando a una comunicazione orale annidata fra i commenti di Porzio al Diario intimo, sarebbe stata l’apparizione della figlia seminuda con in mano un grande pupazzo che la bambina aveva ribattezzato «il diavolo» attribuendogli la responsabilità delle proprie marachelle. Di tutto questo rimane un’immagine calcificata, quasi bruciata dall’impasto di colore e materia. Conta di più, tuttavia, rilevare che nelle intenzioni del pittore questo quadro poteva apparire nella sua sala personale alla XXX Biennale di Venezia. Vi sarebbe comparsa, invece, la Donna che piange sulla strada, dello stesso anno e sempre di Matasci, come un manifesto del tentativo di conciliazione fra realismo e gesto che andava a tradursi in un groviglio che percorre la figura, isolata a risparmio, come uno sfregio. Francesco Arcangeli, prefatore alla sala lagunare, riconosceva in questa tela, come nella «luminosa densità» delle coeve tele di amplesso delle Notti d’amore e delle Sere d’estate, «qualche cosa che domanda vita ancor prima che perfezione». C’è un istinto inconscio, insomma, che preme per essere scaricato violentemente nella pittura, pur senza rinunciare, scriverà Dante Isella, a una materia pittorica «più che sensibile sensuale, prensile», che lascia il pennello libero di scorrere sul colore ancora fresco.
Chiaroscuri contrastati, Goya e Ensor
Non va trascurato, allo stesso tempo, che Francese nasce pittore attraverso la pratica del disegno, e che forse qui sta la chiave di lettura del suo universo formale: contorni spessi, duri, sostenuti da chiaroscuri contrastati da cui emerge quanto abbia contato la riscoperta di Goya, accanto a quella di Ensor, per la nascita di una figurazione cupa e umorale, non scopertamente politica ma compromessa col presente. In una storia del disegno ancora da scrivere, egli si colloca in quella lunga fedeltà agli strumenti del realismo ottocentesco, dalla matita al carbone: non deciderà mai di affilare le proprie armi polemiche con l’inchiostro e la penna, tenendo fede a un medium pittorico nel momento che si sfarina fra le dita.
Nascevano così forme nette e perentorie intagliate come a colpi d’accetta, memori dei suoi trascorsi studi di scultura con Giacomo Manzù a Brera, ma non solo. Fra le sue figure dalle anatomie sgraziate e quasi animali, che puntano gli occhi come degli spilli mentre si aggirano sulla soglia di uno spazio interno come una minaccia, o che giganteggiano soffocati entro o sul margine di scatole prospettiche troppo anguste per contenerle, Francese è fra i pochi a comprendere il Mario Sironi degli anni cinquanta e a confermarsi in quel proposito fino a tutti gli anni ottanta. Viene da lì l’idea di uno spazio ripartito con la scansione paratattica di un fregio, in cui ogni figura è chiusa in uno spazio cadenzato da paratie nel chiuso dell’atelier: un luogo familiare, la cui presenza nel canone dei soggetti rimontava a un’abitudine iconografica tipica della pittura fra le due guerre.
Egli è fra i pochi a partecipare ai funerali di Sironi nell’agosto del 1961, dedicandogli poi un’intensa pagina di diario: la morte di Sigfrido intonata dall’organo per il commiato del «maestro dei muri» dai pittori è forse anche l’accordo migliore per capire, sotto la scorza della tensione morale, la crepuscolare malinconia di Francese.