Quando nel 2004 il governo Berlusconi-bis istituì la Giornata Nazionale della Musica Popolare per bande, cori e gruppi folkloristici, fu abbastanza chiara la sua adesione a un’idea mussoliniana di folklore ben più che a quella di popular music. Né andò meglio quando nel 2011 il ministero sintetizzò così l’oggetto della musicologia: «la musica intesa come arte e come scienza». Tuttora, sotto la lastra sottile del senso comune, correnti semantiche si agitano intorno a quel «terzo tipo di musica» emerso tra le intercapedini delle ottocentesche categorie «classica» e «folk» e ancora intrappolato in quelle di una multidisciplinarietà spuria che finisce per lasciare al buio molte delle attività umane legate ai suoni.

CON I SUOI nuovi contributi, Franco Fabbri continua a perseguire un obiettivo: «Superare la visione musicologica convenzionale che ancora considera la musica come un oggetto isolato, identificato con la partitura». Una concezione cui Fabbri contrappone quella della musica come pratica, propria della musicologia recente, da cui derivano irrinunciabili legami con le altre pratiche sociali. «Chi sa solo di musica, non sa in realtà nulla neanche di essa»: erano state le parole del compositore Hanns Eisler a fare da esergo al precedente libro, Non è musica leggera, cui si collegano molti temi di questo nuovo volume, Il tempo di una canzone, edito a pochi mesi di distanza ancora da Jaca Book.
Un’altra raccolta di saggi, un concept album su carta fondato su architetture formali che il grande musicologo eredita dal suo essere musicista. «Ho sempre pensato a certe strategie compositive, a questioni di struttura narrativa e proporzioni tra le parti. Sono stato molto influenzato dalle raccolte di saggi di Umberto Eco — La struttura assente, Le forme del contenuto, Apocalittici e integrati — le quali danno l’idea di essere pianificate nell’alternanza di argomenti più o meno densi». Dal generale al particolare, da Tin Pan Alley a Piedigrotta, dai generi all’unità atomica (Il tempo di una canzone, appunto) per un lettore-tipo non specialista ma appassionato, che continua a chiedersi con l’autore: «Cos’è la popular music? E cosa non è?».

QUESITI SCOMPOSTI nelle loro varie problematiche, da quella socio-culturale figlia della perdurante divisione in classi (cos’è «il popolo» e cos’è «popular»?) a quella mediatica; dalla questione culturale — ostaggio dell’etnocentrismo anglofono per il quale tutto il resto è world music — a quella linguistica, con l’impossibilità di tradurre il polisemico popular (e che dire della popular music impopolare?). A legare le pagine una scrittura pregevolissima, capovolgimenti di paradigma, dualismi di fondo (autonomia-contesto, musicologico-socioculturale, intensionalità-estensionalità), concetti chiave «adombrati dal suggerimento perenne (di Lenin, di Mao) che «il popolo non è mai una categoria stabile: la sua identità è mutevole e congiunturale, perché è continuamente ridefinita dal conflitto tra le classi e dalla loro cultura».