Lo storicismo, luogo storico e teorico della cultura italiana oggi poco frequentato, si ripresenta talora in modo inatteso, come una vecchia talpa. È il caso di Franco De Felice, storico comunista, che di quella tradizione è stato tra gli ultimi interpreti significativi. La sua vita (Tufo, Avellino, 1937 – Roma 1997) scorse lontana dai luoghi della notorietà e del potere. Scrittore denso ma non accattivante, a Bari fu redattore delle edizioni De Donato e professore universitario, dal 1990 a Roma. In parecchi lo ricordiamo non solo per l’amicizia e la simpatia che ispirava la sua figura bonaria quanto rigorosa: a lui si deve l’individuazione e la problematizzazione di alcuni nodi del ’900 che non hanno smesso di essere cogenti.
Opportunamente la Fondazione Istituto Gramsci gli ha dedicato il suo ultimo annale (Franco De Felice. Il presente come storia, pp. 453, euro 45), affidando a un giovane studioso di valore, Gregorio Sorgonà, una biografia intellettuale che, utilizzando anche documentazione inedita, ne traccia un profilo sufficientemente ampio da rendere comprensibile un vasto percorso.

IL VOLUME CONTIENE anche un saggio di Ermanno Taviani sulle letture di Gramsci e di Togliatti e una parte antologica incentrata sulla storia del Pci, con un inedito. Sorgonà ci introduce agli studi sull’imponibile di manodopera (la tesi di laurea, in giurisprudenza) che si allargarono rapidamente a Gramsci e al tema del Mezzogiorno. De Felice contribuì poi alla ricostruzione di aspetti della storia del movimento comunista – dagli esordi del Pci (Serrati, Bordiga, Gramsci) al VII congresso dell’Internazionale (1935), al ruolo strategico, italiano e internazionale, di Togliatti – e ad alcuni approfondimenti sulla storia d’Europa, come l’origine del welfare tra le due guerre. Su due punti almeno egli raggiunse sintesi che restano come acquisizioni storiografiche: l’originale lettura di Americanismo e fordismo (la modernizzazione novecentesca secondo Gramsci) e l’innovativa interpretazione dell’età giolittiana.

Né desta stupore l’accostamento di temi così diversi se si tenga conto che per De Felice la storiografia era essenzialmente possesso del tema storico, cioè interpretazione (Michele Ciliberto ha scritto di un nesso permanente «fra analisi storiografica e problemi storici»). La sua ricerca si fece più incisiva nella discussione pubblica quando apparve su Studi storici, in singolare coincidenza con l’inizio dello sfaldamento del blocco orientale, una riflessione sulla «democrazia bloccata» al tempo delle guerra fredda (Doppia lealtà e doppio stato, 1989). Era una descrizione della sovranità nazionale italiana nel dopoguerra in equilibrio tra tendenze diverse: la Costituzione repubblicana e antifascista e, da un altro lato, l’alleanza atlantica, imposta dagli equilibri geopolitici e liberamente accolta dal paese. Nella doppia lealtà alla Costituzione e all’Occidente si era consumata l’esistenza del Pci, protagonista della costruzione repubblicana ma non legittimato a governarla in quanto «geneticamente» collegato (pur in un rapporto in perenne ridefinizione) al paese guida dello schieramento avversario, l’Unione Sovietica.
Alla percezione del Pci quale «nemico interno» erano da collegarsi il dramma di Moro (1978), che aveva inteso rinnovare il quadro politico in base al progetto costituzionale repubblicano, e lo scandalo P2 (1981), che aveva mostrato l’installarsi nel potere reale di una classe dirigente mobilitata per evitare che quell’intendimento avesse esito. Soprattutto il caso Moro appariva l’evento che segnava un prima e un dopo, la crisi e, in fondo, il fallimento, della traiettoria comunista ma anche dello stesso progetto repubblicano.

DOPPIA LEALTÀ e doppio stato era lo scheletro di un’ipotesi ricostruttiva che suscitò qualche incomprensione e qualche polemica, ma soprattutto era il tentativo di definire in modo congruo il nesso tra storia nazionale e violenza eversiva.
Non fu un affondo episodico. Da quella riflessione gli approfondimenti di De Felice si svilupparono in varie direzioni mantenendo un fulcro centrale: la figura di Moro (in una conferenza del 1993 pubblicata postuma); lo sviluppo e la crisi della nazione, riconsiderata nella dinamica interno-internazionale (nei due formidabili saggi della Storia dell’Italia repubblicana di Barbagallo); il tema dell’antifascismo europeo in relazione più alla sua valenza egemonica che ideologica (in un volume su Antifascismi e Resistenze, 1997).
La ricerca di De Felice fu interrotta da una morte improvvisa, ma lo legano ancora alla nostra età non solo l’elemento metodologico (il coraggio di tentare di leggere il presente come storia) quanto, e soprattutto, la qualità della ricerca sulla «crisi della nazione», cioè la riflessione sulla fragile democrazia italiana, ancora perfettamente dentro la nostra concreta esperienza esistenziale e civile.