Francis Ford Coppola ha ormai smesso di combattere per instaurare un dialogo con l’industria hollywoodiana ma non ha perso l’autenticità e la bellezza di rapsodo d’eccezione, di narratore ebbro di memoria e mitologie, di sublime tessitore di classicità e futuro. Lunedì sera a Milano, in un affollatissimo Teatro Dal Verme, ha dialogato con il pubblico della città per raccontare le radici della sua famiglia, il suo cinema e l’amore per la Basilicata in un incontro promosso dalla Regione Basilicata e da Meet the Media Guru, piattaforma di incontri e approfondimenti dedicati all’innovazione digitale.

 

 

Nell’impeccabile eloquio di uno storytelling impreziosito da vocaboli dialettali, Coppola comincia la sua epica con la storia dei bisnonni: «Rispettivamente della Basilicata e della Campania, arrivati a Brooklyn agli inizi del 1900, portando memoria, cibo e dialetto». Per poi proseguire, nel suo racconto quasi omerico, con gli altri immigrati italiani che scelsero New York lasciando fra le lacrime la piccola città di Bernalda, le ragnatele di parenti lucani dagli epiteti buffi e crudeli (come la prozia sartina «Senza naso»), l’ingegno del bisnonno che portò la corrente elettrica in tutta la regione, l’avo garibaldino che partecipò alla spedizione dei Mille, il flauto del padre che addolciva i pomeriggi dei bambini con musiche italiane e la parentela (cugini di secondo grado) con Riccardo Muti.
Tra sogno e commozione anche la prima visita nelle terre dei suoi avi: «Avevo 21 anni e vinsi una piccola somma di denaro da Samuel Goldwyn per aver scritto una sceneggiatura. Invece di comprare del cibo e pagare le bollette, acquistai un Alfa Romeo e nel 1962 andai in macchina da Dubrovnik, dove stavo lavorando sul set di un film, a Bernalda, una città che mi sembrava completamente fuori dalla Storia».

 
Il ricordo all’improvviso cessa per fare spazio a riflessioni sul cinema: «Per me è sempre stato come un cespuglio di fiori che può sbocciare in Giappone, in Iran, in Messico, ovunque ma i tempi sono cambiati e ormai il cinema commerciale richiede sempre più azione. A mio avviso si tratta di violenza spacciata per altro. Oggi mi interessa soltanto il puro cinema, quello che possono fare i giovani e gli indipendenti anche perché il Cinema è come il mito di Prometeo, legato alla roccia dalla catena del denaro, incapace di liberarsi e tornare a volare».

 

 

E sul suo allontanamento dai grandi studios americani: «È stata una sfida per la mia carriera, avere successo da giovane, è capitato anche a molti altri artisti. Tennessee Williams, ad esempio, era ossessionato dal fatto di non essere più riuscito a scrivere opere teatrali allo stesso livello di Un tram che si chiama desiderio. Io ho deciso, dopo Apocalypse Now, che non sarebbe capitato anche a me e così ho scelto di suicidarmi metaforicamente per vivere un’altra vita, più fresca, quasi da studente che si avvicina al cinema per la prima volta».

 
Come nel caso del suo ultimo film, Distant Vision, un’opera da lui stesso definita come l’inizio di una nuova fase artistica, il «Live Cinema», una sorta di ibrido fra teatro, cinema e televisione. «Devo continuare a sperimentare e ad avvicinarmi a quello che per me sarà il futuro del cinema. Distant Vision l’ho girato in solo tre settimane con 70 studenti dell’università dell’Oklahoma e dura poco meno di un’ora, raccontando di tre generazioni di italoamericani la cui storia va di pari passo con i progressi della televisione. Ci sono attori su un palcoscenico che si esibiscono per un pubblico mentre una troupe filma l’azione con 22 telecamere».

 
La sua Basilicata però non è ricordata solo al passato, nel futuro ha l’intenzione di girare lì: «Vorrei filmare il ponte di Taranto e qualche sequenza in Lucania anche perché ho scoperto una serie di leggende locali legate alla sepoltura del mio amato conte Dracula. Questo spiega da dove nasce il mio amore sconfinato per i vampiri».