Grosso conflitto alla Ferrero di Villers-Ecalles, in Normandia, primo sito per la produzione della Nutella (600mila vasetti al giorno, un quarto della produzione complessiva della crema da spalmare), fermo ormai da sei giorni: 160 lavoratori (sui 400 impiegati in questa fabbrica) sono in sciopero per ottenere aumenti salariali del 4,5%, oltre al «premio Macron» di 900 euro (deciso per calmare i gilet gialli), mentre la direzione non ne vuole sapere, propone un rialzo solo dello 0,4% e minaccia sanzioni per «blocco illegale».

Il conflitto a Villers-Ecalle può essere considerato una buona notizia, visto che la Ferrero, terzo gruppo mondiale del settore dolciario, funziona bene, ha raddoppiato il fatturato in dieci anni (a più di 10 miliardi di euro e produce in 22 siti dove sono impiegate più di 30mila persone nel mondo) e adesso i lavoratori chiedono di avere la loro parte del successo. Ma questo caso particolare non può nascondere la situazione molto più problematica che sta vivendo da decenni l’industria in Francia, che dal 2001 ha perso 960mila posti di lavoro.

Ieri, il ministro dell’economia, Bruno Le Maire, si è recato a Belfort, dove l’americana General Electric ha programmato la soppressione di più di 800 posti di lavoro sui 1.044 che vuole ridurre in Francia, in un sito che produce turbine a gas, invocando la crisi mondiale del settore. Il direttore generale di Ge France, Hugh Bailey, promette una «riconversione» del sito, in particolare verso l’aeronautica, ma i sindacati chiedono al governo di far rispettare agli americani gli impegni presi nel 2015, al momento della vendita della divisione elettrica della francese Alstom (che era pubblica) alla Ge, che erano di creare mille posti di lavoro. Una promessa mai mantenuta, che illustra la situazione difficile della produzione industriale francese e che spiega indirettamente la rivolta sociale degli ultimi mesi, cresciuta soprattutto nella Francia periferica. Emmanuel Macron, che è chiamato in causa personalmente perché era nel governo ai tempi della vendita di Alstom a Ge, potrebbe recarsi a Belfort nelle prossime settimane.

Nel ’75, 6 milioni di persone erano impiegate nell’industria, cifra dimezzata nel 2014, mentre ormai solo il 12,5% della forza lavoro è addetta all’industria, uno dei tassi più bassi in Europa. L’occupazione nella produzione industriale arriva solo al quarto posto in Francia, dopo il settore pubblico, il terziario residenziale (rivolto ai privati) e il terziario produttivo (rivolto all’industria). La conseguenza della deindustrializzazione francese è un deficit commerciale che nel 2018 è stato di 60 miliardi, cifra che conferma la divergenza profonda con il principale partner europeo, la Germania (e spiega molte tensioni in corso nella Ue).

Negli ultimi decenni c’è stata una riorganizzazione del paesaggio industriale francese, che è diventato più omogeneo, anche se le regioni tradizionalmente più industrializzate (Ile-de-France, Bourgogne, Auvergne) concentrano ancora più del 60% dei siti di produzione.

A fine 2018, il governo ha proposto un progetto modesto di rilancio industriale, che dovrà essere realizzato senza nuove risorse ma con un riorientamento di finanziamenti già esistenti intorno a 1,3 miliardi di euro, per solidificare i territori d’industria in zone dove vivono tra 50mila e 150mila persone. Cioè, un rilancio della Francia periferica, che politicamente si è allontanata dai partiti di governo tradizionali, per scegliere sempre più l’estrema destra. Il Ressemblement national è da qualche anno, dopo l’astensione, il primo partito degli operai. In Francia, la disoccupazione è in calo, ormai sotto il 9%, il padronato sbandiera promesse di assunzioni (3,5 milioni quest’anno). Ma si tratta soprattutto di terziario, mentre l’industria (e con essa l’organizzazione sindacale) continua nel più o meno lento declino.