Ieri sera è andato in onda un fatto storico: sulle due principali reti tv (Tf1 e France2) il dibattito tra i candidati al secondo turno delle presidenziali francesi per la prima volta ha visto la presenza del Fronte nazionale. Nel 2002, Jacques Chirac aveva rifiutato di discutere con Jean-Marie Le Pen. Ieri, Emmanuel Macron ha dibattuto con Marine Le Pen. È il segno che in quindici anni si è realizzata una «banalizzazione» dell’estrema destra. È uno scontro tra due mondi, nell’elettorato dei due candidati: alla differenza destra-sinistra, che entrambi pretendono sfumare, si è sovrapposta la contrapposizione aperto-chiuso, che si traduce tra gli elettori nella percezione di se stessi come «vincenti» o «perdenti» della mondializzazione, cioè dell’Europa, dell’euro.

La divisione è tra «ottimisti» e «pessimisti», e non sempre è solo differenza di reddito (lo è molto di più per il titolo di studio). «Mondializzazione selvaggia» contro il «popolo» per Marine Le Pen, che si è presentata come «la candidata che protegge», contro la mondializzazione, contro l’islamizzazione. Subito gli insulti: «Freddezza del banchiere». Macron caustico: «Lei ha dimostrato subito di non essere la candidata dell’esprit de finesse». E ha fatto riferimento al «lignaggio» dei Le Pen, presente da tempo, che oggi porta «lo spirito di disfatta», di fronte al mondo, al terrorismo, di fronte alle sfide. A cominciare dalla lotta alla disoccupazione: «semplicità» per Macron, un diritto del lavoro «meno rigido» per adattarsi con «pragmatismo», contro una visione che si perde nelle critiche del governo Hollande e manca di proposte.

I temi dell’estrema destra hanno imposto il tono alla campagna: come spiega il politologo Jean-Yves Camus in un incontro alla Fondation Jean Jaurès, è sempre l’immigrazione al centro. Nella tradizione dell’estrema destra, afferma Camus, c’è l’attacco contro chi viene da fuori, ma anche contro chi «li fa venire». Sono «delle forze economiche, politiche» che portano a «modificare la sostanza stessa della popolazione francese», un’accusa che già esisteva un secolo fa, «le primizie della teoria della grande sostituzione» presente oggi nell’argomentazione del Fronte nazionale. Marine Le Pen si presenta come la «rappresentante del popolo» di fronte «al banchiere», dipinto come un «mondialista» contro la nazione. Di qui la ripetizione ossessiva del riferimento al lavoro che Macron ha svolto nel settore privato, presso la banca Rothschild, con un pesante sottofondo antisemita (nella campagna del primo turno, gli amici del gollista Fillon hanno diffuso su Internet una caricatura di Macron tipica dell’iconografia antisemita).

Gli ultimi sondaggi confermano le intenzioni di voto: 60% per Macron, 40% per Le Pen. La campagna tra i due turni non sembra «aver fatto muovere le linee», afferma Jérôme Fourquet dell’Ifop. Ma il candidato Macron è fragile, perché l’adesione al suo programma è bassa (il 60% dei suoi probabili futuri elettori del 7 maggio voteranno «per difetto»), una percentuale rovesciata per Le Pen (59% di «adesione» al programma). Per quanto riguarda l’elettorato di Jean-Luc Mélenchon, Fourquet ricorda che, stando agli ultimi dati, uno su due dovrebbe alla fine decidersi per Macron obtorto collo.

I dati dell’inchiesta Ifop sono molto diversi da quelli usciti dalla consultazione Internet tra i 440mila militanti della France Insoumise (vedi il manifesto di ieri), dove al 65% è stata scelta l’opzione dell’astensione. Secondo i dati Ifop, il voto per Marine Le Pen dell’elettorato Mélenchon è calato dal 19% al 13%, a vantaggio dell’astensione (dal 30 al 37%). Gli elettori di Mélenchon che affermano di voler votare Le Pen sono più uomini (67%), mentre Macron raccoglie un elettorato più femminile della France Insoumise. Stessa differenza per il livello di studi: più è elevato, più è facile il passaggio da Mélenchon a Macron al secondo turno, più è basso più si fa sentire la sirena Le Pen. I più giovani (meno di 35 anni) che hanno votato Mélenchon sono i più disposti a votare Macron. Lo è meno, invece, l’elettorato tra i 35 e i 49 anni, solo il 35% si piegherebbe al voto Macron. Per Fourquet, c’è qui un «effetto generazionale»: sono coloro che nel 2002 hanno votato Chirac per bloccare Le Pen padre e poi hanno subito una politica che non ha mai tenuto conto del loro voto. Di qui il successo di Mélenchon, spiega il politologo Joël Gombin, che ha cercato di reintrodurre nel gioco l’identità politica di sinistra, dicendo «basta con la definizione in negativo», del voto contro, che «porta solo alla vittoria della destra». Di qui, anche, la reazione di Macron, che ha rifiutato il «gesto» richiesto da Mélenchon, l’abbandono della Loi Travail e la continuità su questa strada di riforma del diritto del lavoro: Macron parla «ai suoi», prima di tutto, non cede nulla, anche per avere le mani libere per attuare la sua politica.