Macron è presidente della Francia. Il paese, diviso fra i due candidati «né destra né sinistra», quello neoliberista-finanziario e quello demagogico-identitario, ha fatto la scelta rassicurante della continuità. Ma senza dare un occhio alle dinamiche economiche è difficile capire il rivolgimento attuale: polverizzazione dei partiti tradizionali (sinistra socialista e destra gaullista di Sarkozy), trionfo dei candidati che entrambi a loro modo, rifiutano di essere incasellati nello schema destra-sinistra.

Cosa è successo? Prima di tutto le banche.

Gli istituti di credito francesi graveranno, secondo il belga Eric Toussaint, per circa 60 miliardi di euro sul bilancio statale, fra salvataggi e sconti fiscali concessi nel corso degli anni della crisi (2008-2017), con la ben disposta sponda dei governi che si sono succeduti: destra gaullista di Sarkozy (2007-2012) e socialisti di Hollande (2012-2017) entrambi hanno «riformato» le pensioni nel 2010 e nel 2014 (innalzamento dell’età pensionabile e aumento degli anni di contributi).

Da una parte si salva la finanza e le banche, mentre dall’altra si toglie a lavoratori e pensionati. È così sconcertante un rifiuto diffuso delle oligarchie politiche nel loro complesso?

Un’analisi del pensatorio progressista CEPR di Washington (aprile 2017) mostra come la Francia non sia stata affatto immune dal vento di austerità europea promossa da Commissione e governo tedesco sul continente (in modo particolarmente acceso verso il sud Europa); oltre alle «riforme» pensionistiche, durante la presidenza Hollande vi è stata una particolare accelerazione sul mondo del lavoro, con l’approvazione di tre leggi distinte: legge Macron (agosto 2015), legge Rebsamen (agosto 2015) e legge El Khomri (agosto 2016) la cui convergenza aumenta il precariato, liberalizza alcuni settori e decentra la contrattazione salariale alla singola azienda dal piano nazionale.

Si tratta di una esecuzione piuttosto zelante dell’agenda della governance europea e uno degli assi delle raccomandazioni della Commissione alla Francia. Nel report del 2017 (Commissione Ue, Country report France febbraio 2017) si registra infatti un sostanziale progresso sulla «riduzione del costo del lavoro» (cioè meno salario) – mentre in altri punti il successo è assai meno soddisfacente.

Il Macron di tale legge non è un omonimo: è proprio Emmanuel Macron che invece di concorrere alle primarie socialiste si è fatto un suo partito personale e dimessosi dal governo nel 2016 (ministro dell’economia), si è accreditato come l’alternativa innovatrice. Con qualche riscontro: Stefan Kreuzkamp di Deutsche Bank si felicita che «la Francia avrà per la prima volta un Presidente favorevole alle riforme».

In realtà non pare una grande novità (Wall Street Italia titola: «Macron si sceglie governo “tedesco” pro austerity»). Non sorprende più di tanto perciò che il gruppo di Economistes Atterrés (gruppo di studiosi progressisti) abbia liquidato in un agile report l’agenda economica di Macron come «economia a marcia indietro» e come «continuità coi predecessori nella linea della austerità con scarse rotture» (in un altro articolo dello stesso gruppo si parla ancora più sbrigativamente di «vecchie ricette liberiste sotto qualche orpello modernista»).

E non pare che tale panorama abbia dato frutti particolarmente soddisfacenti, considerando che secondo l’Uniceff un quinto dei bambini francesi vive in famiglie sotto la soglia di povertà e il tasso di disoccupazione si arrampica verso il 10% (qualche punto sotto l’Italia).

Rispondendo al povero Varoufakis che protestava contro l’imposizione dell’austerità in Grecia, il ministro Schäuble rispondeva: «L’ho nel Baltico, in Portogallo, in Irlanda, dobbiamo preoccuparci della disciplina … e voglio portare la Troika a Parigi».

Di certo i collettivi anticapitalisti che hanno manifestato il giorno dopo i risultati («Macron dimissioni!», «Un giorno solo è troppo!») non la accoglieranno bene. Vedremo alle legislative di giugno.