Il semi presidenzialismo resta al suo posto nell’orizzonte del partito democratico, prova ne sia che oggi un gruppo di deputati di tutte le correnti interne presenteranno un disegno di legge per l’elezione diretta del presidente della Repubblica. Ma ieri nella sua relazione alla direzione del partito, il segretario Guglielmo Epifani ha dovuto tenere conto dell’altra metà del cielo democratico, i contrari al modello francese. Anche se è una metà in ritirata, dopo che Romano Prodi in persona ha rotto il tabù per l’ex sinistra democristiana. «Anche il semipresidenzialismo è una soluzione democratica», ha premesso Epifani. Aggiungendo però un campionario di contrappesi alla formula – cominciando dal conflitto di interessi – che lo renderebbero impraticabile in alleanza con Berlusconi. Non solo: il segretario ha proposto un calendario in base al quale il parlamento dovrebbe cominciare ad occuparsi del bicameralismo, passare poi al titolo V e solo al termine dedicarsi alla forma di governo. Il che significa allontanare i nodi dal pettine – oltre che confermare il definitivo accantonamento di un intervento sulla legge elettorale.

L’impressione è che al contrario di quello che il segretario ha ripetuto – «le riforme non servono a tenere in piedi il governo ma a rendere più forte il paese» – preferisca spostare in avanti il confronto nel partito contando sul fatto che la partita è appena alle prime battute. Ed è così, malgrado il governo voglia affrontare già questa settimana in Consiglio dei ministri le legge costituzionale che modifica il percorso di revisione previsto dall’articolo 138. La «commissione dei 40» deputati e senatori comincerà ad occuparsi del merito – e dunque anche del semi presidenzialismo – non prima del prossimo autunno, inoltrato. Ai democratici non serve dividersi adesso, o meglio possono farlo sui giornali non dovendolo fare nelle aulee parlamentari.

La prudenza di Epifani è ispirata dalla freddezza di D’Alema, che ieri è tornato a insistere sul fatto che «l’Italia non è la Francia» e qui da noi «un arbitro super partes è essenziale per l’equilibrio democratico». L’ex presidente del Consiglio non ci sta a che i presidenzialisti passino per innovatori: «Non sono contrario in linea di principio all’elezione diretta del presidente della Repubblica, sono contrario a dire che i riformisti sono per il presidenzialismo». Dai tempi della bicamerale, quando fu sconfitto da un blitz Berlusconi-Lega, D’Alema al semi presidenzialismo preferisce l’elezione diretta del premier – formula che bisognerebbe importare da Israele.

Ma ci sono deputati dalemiani, così come renziani, bersaniani e veltroniani, anche tra quelli che oggi si schiereranno per il modello francese. Il Pd è questo, e ieri in direzione hanno parlato contro il presidenzialismo sia un dalemiano come Gualtieri sia un bindiano come Bachelet che un esponente della sinistra come Tocci.
Se ne riparlerà, anche nella direzione in foma seminariale e «sentendo gli iscritti» non si sa come. Intanto l’invito di Epifani a «tenere fuori dalla mischia il governo e il Quirinale» va inteso nel senso che bisogna lasciare il governo e il Quirinale liberi di condurre il gioco sulle riforme, senza protestare.