Mentre Matteo Renzi informava la direzione del Pd che non ci sarà «nessun rinvio» sulle riforme, e che il mese di giugno sarà «cruciale» per approvare il disegno di legge costituzionale sul bicameralismo e a ruota – «comunque entro l’estate» – la seconda lettura della legge elettorale, la commissione affari costituzionali del senato decideva, appunto, un rinvio. Breve: il termine per la presentazione degli emendamenti al testo del governo doveva scadere ieri pomeriggio, e invece scadrà martedì prossimo. Si comincerà allora a votare e, se andrà bene, si potrebbe concludere in commissione per quella data, il 10 giugno, sulla quale era già ripiegato Renzi come scadenza ultima per il via libera dell’aula del senato. Nella sua sfida con i senatori adesso Renzi ha l’energia in più del successo alle europee, ma il senato è Rodi ed è qui che deve saltare.

La contraddizione è quella lasciata irrisolta prima delle elezioni. La maggioranza dei senatori, ben rappresentata dai commissari della affari costituzionali, è per una forma di elezione dei nuovi componenti della camera alta. Con una preferenza per l’elezione diretta. Il governo pensa l’opposto: di principio voleva quasi solo sindaci nel senato, poi metà sindaci e metà consiglieri regionali. La situazione schizofrenica ha portato all’approvazione di un ordine del giorno Calderoli che raccomanda l’elezione diretta, e del testo base Renzi-Boschi che prevede l’opposto. La parola dunque agli emendamenti (ma sul pasticcio procedurale dovrà prima o poi pronunciarsi la giunta per il regolamento).

A ottenere lo slittamento di cinque giorni del termine è stato il senatore Calderoli, correlatore, con la minaccia di presentare altrimenti oltre tremila emendamenti leghisti. Restano un centinaio di emendamenti dei 5 stelle, una quarantina di Forza Italia, tredici del Nuovo centrodestra, una ventina della (ex) minoranza Pd, quelli di Sel firmati anche dagli ex grillini… Ci sono gli emendamenti del senatore Russo del Pd, che si è assegnato il ruolo di «facilitatore» delle riforme, e che recepisce le intenzioni del governo sulla riduzione dei senatori di nomina presidenziale (da 21 a 5) e sul rapporto proporzionale tra senatori e popolazione della regione. In più c’è la proposta di alzare il quorum per le modifiche costituzionali, da 2/3 a 3/5, una necessità che deriva dall’opzione per il maggioritario. Lo schieramento favorevole all’elezione diretta è sempre ampio, va da Sel ai grillini ed ex grillini, abbraccia il Nuovo centrodestra e una parte dei senatori Pd che avevano condiviso la proposta alternativa di cui era primo firmatario Vannino Chiti. C’è anche il senatore di Forza Italia Minzolini (che parimenti insiste con il presidenzialismo).

Il richiamo all’ordine della maggioranza arriverà entro martedì sotto forma degli emendamenti della relatrice Finocchiaro. La via d’uscita la indica l’emendamento dei senatori iper renziani Marcucci e Mirabelli che propone una forma originale di elezione indiretta. L’elettorato attivo del nuovo senato viene riservato, in ogni regione, ai consiglieri regionali, ai consiglieri comunali di tutti i comuni grandi e piccoli e ai deputati eletti nella regione. L’elettorato passivo quasi coincide: consiglieri comunali o regionali. I comunali sono naturalmente la grande maggioranza, tanto che si prevede che almeno un terzo degli eletti debbano essere consiglieri regionali. La proposta viene offerta come mediazione ma somiglia tanto al ritorno in forze del senato dei sindaci e alla rivincita dell’Anci, l’associazione dei comuni così ascoltata dal premier Renzi e dal sottosegretario Delrio.
Viene presentata anche come «modello francese», e in questa chiava piace anche al senatore bersaniano Gotor. Ma di francese ha poco, posto che Oltralpe l’elettorato passivo è di tutti i cittadini sopra i 24 anni. A Parigi i senatori sono rappresentanti dei partiti a tutti gli effetti, vengono scelti con legge proporzionale (in maggioranza), vengono pagati qualcosa più di 11mila euro al mese e, molto presto, non potranno essere sindaci.