In quello che si potrebbe leggere come una sorta di manifesto programmatico della visione del mondo di Francesco Pecoraro, l’anonimo protagonista di «Mi suicido per via dei miliardi di anni» – uno dei racconti di Camere e stanze (Ponte alle Grazie, pp. 480 € 19,00) – elenca le ragioni del suo gesto. Fra le altre: «perché sono costretto a partecipare alla ‘giostra della vita’ e mio malgrado a goderne senza riuscire a approvarne un solo istante», «perché non sopporto di vivere nell’instabilità del moderno e allo stesso tempo perché non sopporto qualsiasi cosa abbia forma stabile», «per questa mia cronica impossibilità di stare bene, di sentirmi a posto».

Il volume, che alla raccolta d’esordio di Pecoraro, Dove credi di andare (Mondadori 2007) affianca il racconto lungo Tecnica mista (uscito nel 2014 come e-book) e la sezione «Altre forme», per lo più composta di inediti, porta in copertina un disegno a matita dell’autore: all’estremità destra un profilo umano, una sorta di maschera rocciosa, fissa davanti a sé lo spazio bianco, interrotto solo da una linea orizzontale da cui emergono in lontananza sagome squadrate e indistinte.

«Io vedo attorno a me un processo di disgregazione accelerata di ciò che un tempo consideravo come un sistema più o meno organico di interi. Di questi restano i frammenti, mentre forse altri interi si formano, senza che riusciamo a capire quali siano e cosa siano», aveva detto Pecoraro all’uscita di Dove credi di andare. Uno sguardo implacato sulla mutazione in corso – unito alla fatica di chi non sa, e comunque troverebbe detestabile, «stare comodo» – attraversa tutti i testi di Camere e stanze come già era stato per i due romanzi totalizzanti e magmatici di Pecoraro, La vita in tempo di pace e Lo stradone. Affini, nella postura, queste forme brevi, rendono a volte difficile sottrarsi alla sensazione di essere di fronte a studi preparatori degli affreschi successivi, o a schizzi da essi fuoriusciti.

Così, per esempio, il ragazzino Guido costretto a confrontarsi con l’improvvisa debolezza del tirannico Padre (in «Non so perché») è un gemello bambino dell’ingegner Ivo Brandani della Vita in tempo di pace, e la riunione aziendale di «Vivi nascosto», con gli indigeribili tramezzini del bar Poletti e la malmostosità dei colleghi, prefigura atmosfere dello stesso romanzo e del successivo Stradone. Ricorrono nomi, e più ancora ricorrono spazi: accanto a Roma, la Città di Dio, per Pecoraro un buco nero cui è impossibile sfuggire, c’è soprattutto – nei racconti come nelle forme lunghe – il mare, sia quello consueto del litorale laziale sia quello continuamente agognato dell’Isola greca, in tutti i casi forse l’unico luogo dove è possibile essere liberi, o almeno immaginarsi tali.

Tutt’altro che propaggini dei romanzi, ricorre nei testi di Camere e stanze un deliberato desiderio di sperimentazione che li rende preziosi per la conoscenza di un autore così singolare nel panorama dell’attuale narrativa italiana. Dal clima onirico di «Happy hour», dove il racconto di un aperitivo con uno sconosciuto sembra la trascrizione di un incubo, con l’acqua di fogna in cui i personaggi, all’apparenza indifferenti, sono immersi fino alle ginocchia, alla quasi-fantascienza della «Tavolata», immagine apocalittica di un mondo dove tutti trascorrono il tempo mangiando e marginalmente copulando, Pecoraro esplora gli aspetti occulti, repressi, del nostro vivere.

E più di tutti, forse, il disagio dell’uomo (maschio) contemporaneo di fronte a una trasformazione che non può che sfuggirgli. Particolarmente interessante, in questo senso, è il racconto che chiude la raccolta, «Antonella, ti amo», in cui – unico caso – lo scrittore mette al centro una figura femminile, sconfitta pure lei, eppure capace di opporre una quotidiana resistenza alla sorte che tutti ci unisce, quella del cormorano costretto, per cercare nutrimento, a tuffarsi nell’acqua gelida.