L’hanno detto in molti e, a dieci anni dalla morte di Francesco Orlando, ricordarlo ha ancora più senso: quando ormai la crisi della critica era conclamata, a chi approdava all’università il grande critico insegnava che fra il grigiore della filologia neo-positivista e le approssimazioni disoneste della scrittura saggistica en artiste, tertium datur. E che lo studio delle letterature nazionali è un provinciale anacronismo, perché i classici scritti nelle diverse lingue occidentali devono dialogare sulla pagina di ogni critico serio, come dialogavano sugli scaffali della sua leggendaria biblioteca.

Tutti gli studenti che hanno avuto il privilegio di seguire i corsi di Orlando li ricordano con emozione: la sua proposta teorica, oggi, può tornarci utile solo per frammenti, ma lui non ammetteva adesioni parziali o eclettiche, né deroghe ai suoi postulati più radicali, come quelli che identificano valore estetico e coerenza del testo, o letterarietà e tasso di figuralità. I pochi che non irridono, derubricandole a cattiva filosofia, le domande cui non sappiamo rispondere (perché un testo è bello? che cos’è la letteratura?) sono oggi inclini a ritenere la complessità dei capolavori più spesso centrifuga e contraddittoria che coerente; e il criterio della densità figurale sempre meno sembra in grado di circoscrivere lo spazio della comunicazione letteraria.

Matte Blanco a modello
Soprattutto, appare inattuale in Orlando un habitus mentale, mutuato dalla tradizione idealista, prima ancora che dalla linguistica strutturale: ogni suo ragionamento si costruisce per antitesi binarie – la formazione di compromesso essendone la sintesi adialettica. Due e solo due sono le istanze che si fronteggiano nella psicomachia che il testo letterario, ai suoi occhi, mette in scena.

Paradossalmente, proprio Illuminismo e retorica freudiana, il libro che propone nel 1982 ( poi con l’aggiunta del barocco nel titolo, nel 1997) un modello complesso di frazione simbolica a tre livelli, in cui repressione e represso possono scambiarsi le parti, mostrando come la formazione di compromesso possa dar voce simultanea a più di due istanze inconciliabili, segna anche la promozione a modello teorico di Ignacio Matte Blanco, che progressivamente sostituisce non solo Lacan, ma lo stesso Freud. Anziché aprire la teoria di Orlando, come non sarebbe stato impossibile, al dialogo con gli esiti migliori della coeva riflessione post-strutturalista, Illuminismo l’ha ingabbiata nell’opposizione fra logica simmetrica e asimmetrica; anziché accogliere una formazione di compromesso polifonica, fra tre o più elementi in tensione, l’ha ricondotta al canto rigidamente amebeo della bi-logica. Non a caso, negli ultimi anni della sua vita Orlando ha eletto Bachtin a bersaglio polemico prediletto.

I suoi saggi più belli e convincenti hanno illuminato testi nati in epoche di conflitto poetico e di transizione storica: il grand siècle francese, fra barocco, classicismo e avvisaglie illuministiche in Fedra e Il misantropo; l’Ottocento romantico e simbolista negli splendidi articoli su Baudelaire e Mallarmé confluiti nel 1983 in Costanti e le varianti, il libro su Infanzia, memoria e storia da Rousseau ai romantici.

Oltre che un grandissimo critico, dunque, Francesco Orlando è stato un teorico inattuale (ma non meno grande): insistere su questo dualismo sarebbe però al tempo stesso ingeneroso e sbagliato, perché fra ermeneutica e teoria si stabilisce, fin dagli anni Sessanta, un circolo virtuoso: la teoria freudiana risponde agli interrogativi suscitati dall’analisi dei testi. Soprattutto, perché non c’è critica degna di questo nome che possa fare a meno di quella domanda teorica elementare e decisiva che risuona in ogni pagina di Orlando: in che rapporto sta il testo letterario con il mondo – con la storia collettiva e con la nostra psiche?

Nel pressoché inesistente dibattito odierno, non è in gioco la prevalenza di questa o quella idea della letteratura, ma la legittimità stessa della teoria letteraria. Per questo l’eredità di Orlando è più che mai preziosa e i critici migliori non possono non difenderla, contro il feroce buon senso del comune avversario.

La polemica di Compagnon
Nel suo ultimo libro, dedicato alla figura dello straccivendolo, Les Chiffonniers de Paris (Gallimard 2017) Antoine Compagnon dedica alcune pagine velenose a Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, il bellissimo saggio di Orlando uscito nel 1993 e riportato in libreria da Einaudi nel 2015, per le cure di Luciano Pellegrini. Organizzando in dodici categorie un corpus enciclopedico di brani letterari che rappresentano Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti (così il sottotitolo), Orlando mostra come il fascino esercitato sulla letteratura occidentale dalle immagini di oggetti non funzionali si intensifichi in misura esponenziale in coincidenza con la rivoluzione industriale.

Se la ricchezza delle società in cui domina il modo di produzione capitalistico si presenta, dice Marx, come una «immane raccolta di merci», la letteratura di quelle stesse società assomiglia, in uno specchio rovesciato e deformante, a una «immane raccolta di antimerci». Se l’arte non è rispecchiamento diretto di una struttura economica (come voleva Lukács), è pur sempre legata alla storia da un rapporto indiretto, secondo una logica del rovesciamento che dà voce a un ritorno del represso. Gli oggetti desueti, in letteratura, contestano l’imperativo funzionale, l’efficienza razionale e produttiva che domina le società moderne.

Con Picard contro Barthes
L’obiezione di Compagnon, storicamente esatta e teoricamente pretestuosa, è questa: negli anni in cui i vari Balzac e Dickens offrivano cittadinanza letteraria, in descrizioni sottratte all’ipoteca del comico, al bric à brac confus della metropoli moderna, nella realtà l’oggetto desueto non esisteva. Tutto si riciclava: il lavoro degli chiffonniers restituiva agli scarti una seconda vita non meno funzionale della prima. Il tramonto di questa economia circolare arcaica ha una data precisa: 1884. In quell’anno, il prefetto Eugène Poubelle organizza a Parigi una moderna raccolta dei rifiuti, guadagnandosi una poco lusinghiera immortalità: poubelle è ‘pattumiera’. Né il mito letterario dello straccivendolo né le anti-merci di Orlando si presterebbero perciò a un’ermeneutica freudiana.

Compagnon legge Gli oggetti desueti con gli strumenti messi a punto in quella brillante reductio ad absurdum della stagione (post-)strutturalista che è Il demone della teoria, dove portando alle estreme conseguenze le tesi del suo maestro, Roland Barthes, ha gioco facile nel mostrarne l’aberrante stravaganza agli occhi del «senso comune». Di questo parricidio perfetto, per ironia della sorte, Orlando coglieva l’aspetto liberatorio, capace di dissolvere (credeva) i fumi autoreferenziali della decostruzione; trent’anni prima, del resto, non aveva esitato a schierarsi con Raymond Picard, contro Barthes, nella celebre querelle su Racine e la nouvelle critique. Dimenticando che la reazione degli eruditi sorbonardi, all’antica o à la page, come quella dei filologi pisani che gli hanno attossicato la vita accademica, non ha mai per bersaglio l’inesattezza del dato storico, o gli estremismi capziosi dell’elaborazione concettuale, ma la legittimità stessa della teoria, di ogni tentativo di astrarre un significato non tautologico dalla lettura dei testi.

Nel caso specifico, la tesi di fondo degli Oggetti desueti regge, eccome. Gli imperativi funzionali della razionalità borghese non hanno aspettato gli editti di Poubelle per screditare con disprezzo, e perciò votare a una redenzione artistica, tutte le cose che non risultano immediatamente utili; e davvero la grande letteratura riscatta spesso (non sempre) ciò che l’ideologia dominante inibisce, o respinge ai margini del lecito, del dicibile, del presentabile. La letteratura è conoscenza mediata: del mondo, della storia, della psiche degli uomini. Nella cultura italiana del secondo Novecento, nessuno meglio di Francesco Orlando lo ha saputo mostrare.