La diciannovesima edizione di Kilowatt Festival, rassegna teatrale che si svolge a Sansepolcro in provincia di Arezzo, è stata caratterizzata dalle sorprese. Innanzitutto quelle positive: una programmazione con numerosi nomi internazionali, il sapiente utilizzo dei luoghi cittadini come le piccole strade del centro per performance itineranti e due bellissimi chiostri come spazi scenici, infine un dopofestival di qualità nei Giardini di Piero della Francesca. Lì, sotto l’egida del grande pittore che nacque proprio nel borgo ai piedi dell’Appennino toscano, i frequentatori della rassegna, gli addetti ai lavori, gli artisti si incontravano per condividere un pasto e ascoltare musicisti di grande interesse del panorama underground come Bruno Dorella o gli WOW.

Purtroppo proprio questi ultimi due appuntamenti non si sono potuti svolgere a causa di un intervento dei Carabinieri-Forestali, che hanno lamentato la presunta mancanza di alcuni permessi. I direttori Luca Ricci e Lucia Franchi hanno risposto rigettando le accuse, ma si sono visti costretti a smantellare il dopofestival. Serve veramente «questa fervida pazienza», com’era intitolata l’edizione in riferimento alle chiusure pandemiche, per non risentirsi di fronte ad un tale attacco che sembrerebbe poco motivato. Nonostante quindi il clima preoccupante, la manifestazione si è confermata una finestra sulle numerose entità che animano il paesaggio delle arti sceniche in Italia. La danza è stata particolarmente presente, tra i numerosi lavori visti Party Girl di Francesco Marilungo ha debuttato in prima nazionale. Una riflessione sul mondo delle sex workers che diviene chiave interpretativa per guardare a tutto l’immaginario sul femminile, laddove tra costrizione e libertà l’erotismo compare e si sottrae impercettibilmente dai corpi delle danzatrici Barbara Novati, Roberta Racis e Alice Raffaelli. «La prostituta aveva un ruolo importante nell’antichità, era colei che conosceva i segreti della carne e del corpo» racconta Marilungo, che ha a cuore il definitivo superamento di uno stigma durato troppo a lungo. Lo spettacolo sarà in replica a Verona al Festival Prospettiva Danza Teatro, a MilanOltre per poi approdare a Napoli e a Salerno.

Una voce fuori campo impartisce ordini alle danzatrici, che significato le ha attribuito?
È un punto critico del lavoro, perché volevo portare sulla scena quella dialettica di dominio che si instaura nel fenomeno della prostituzione, anche se ritengo che i giochi di potere si inneschino in tutti i rapporti di lavoro salariato. In questo caso specifico la situazione è forse più ambigua,  studiando e parlando con diverse sex workers ho compreso che la dominazione non è mai unidirezionale come sembrerebbe. Il voice over comanda i corpi sul palco e li sottopone a posizioni scomode, volevo però che alla fine emergesse una ribellione. Fino agli anni ’70 e ai movimenti femministi la sex worker è sempre stata una figura pagata per il suo silenzio. Volevo dare una voce a queste persone, rimaste silenti per lungo tempo.

Sulla scena ripropone un immaginario di donna modellato dal desiderio maschile, è sottintesa una critica?
Volevo riportare uno stato di fatto, senza alcun giudizio. Di sicuro la nostra è una società patriarcale, quindi non credo sia la prostituzione a rendere la donna un oggetto sessuale. Mi sembra piuttosto che sia una lente di ingrandimento su un fenomeno più grande. Volevo che emergesse il processo di oggettivazione del corpo tramite una ricerca sulla qualità del movimento e della presenza, per proporre metaforicamente quel processo in cui la sex worker si mette volontariamente a disposizione di qualcun altro per un periodo di tempo. Ricordo che una prostituta su sette è vittima di tratta, lì c’è una vera e propria forma di schiavitù, ma non è così negli altri casi. Vorrei far riflettere il pubblico sul tema, perché io penso che quel lavoro andrebbe riconosciuto e legalizzato.

È la prima volta che lei non è l’interprete di una sua coreografia, come ha lavorato con le danzatrici?
Innanzitutto le ho scelte perché portano sulla scena tre femminilità molto diverse. Volevo che, nonostante l’impostazione schematica dei movimenti, emergesse la loro personalità. Il corpo diviene quasi meccanizzato, ma volevo che il loro sguardo rimanesse umano e che fosse uno spaccato del mondo interiore. Sono molto contento di questa prima esperienza fuori dalla scena, mi piace curare la composizione nei minimi dettagli e dall’esterno c’è una consapevolezza maggiore. Ho avuto una formazione da ingegnere e forse porto con me quel retaggio nel ricercare una scansione quasi matematica. Inizialmente eravamo io e le danzatrici senza alcun sostegno, poi fortunatamente la compagnia Körper, diretta da Gennaro Cimmino, ha visto uno studio di Party Girl e ci ha proposto di produrlo. Nel futuro vorrei continuare l’indagine sul femminile concentrandomi sulla figura della prefica, come ha fatto Ernesto De Martino in Morte e pianto rituale.

Prima che la performance debuttasse è stato presentato al festival di Pesaro il film «Sei ancora tu» di Chiara Caterina, che prende spunto dal lavoro.
Non credo al teatro in video o in streaming per cui abbiamo pensato ad un film con una sua vita indipendente, che non fosse una semplice documentazione. Con Chiara Caterina avevamo già collaborato e sapevo che aveva fatto un’esperienza a Santarcangelo, ideata da Filmmaker Festival, che aveva come fine quello di contaminare linguaggio audiovisivo e linguaggio teatrale. Il punto è capire come la macchina da presa si relazioni allo spettacolo dal vivo. Per come l’abbiamo immaginata, la camera introduce un ulteriore livello di voyeurismo rispetto all’oggettivazione dei corpi. Abbiamo girato in pellicola per entrare nella dinamica «one shot», come se si stesse osservando qualcosa di desiderato per la prima volta.