L’intuizione è sempre il punto di partenza per tutti i progetti di Francesco Jodice (Napoli 1967, vive e lavora a Milano). «Una cosa letta sul giornale, ascoltata alla radio, trovata in un verso di una canzone, detta da un politico… qualcosa che mi colpisce come una forma di anomalia dissestando la mia visione del reale. Immediatamente, nasce la necessità di prendere quest’anomalia e trasferirla al pubblico. È come se la mia inquietudine dovesse essere risolta da qualcun altro. Dopodiché mi fermo e comincio una fase di ricerca. Solo quando considero concluso il piccolo bagaglio di sapere di cui sento di dovermi dotare, parto e cerco di autofinanziarmi per avere la libertà di decidere la forma che prenderà il progetto: installazione, lavoro fotografico, libro, film», spiega l’artista.
Scrupoloso indagatore dei mutamenti del paesaggio sociale contemporaneo, in occasione della 13/a edizione di Planches Contact – Festival di fotografia di Deauville (fino al 1° gennaio 2023), invitato dalla direttrice Laura Serani come artista in residenza, Jodice ha realizzato il film di dodici minuti 44 things seen by an alien anthropologist in Normandy (2022). L’autore, cui nel 2021 è stata dedicata la monografia The Complete Works (a cura di Marco Scotini, Silvana editoriale), aveva già vinto l’Italian Council dello scorso anno con il progetto West (presentato dal Museo di fotografia contemporanea di Milano-Cinisello Balsamo insieme a Galerie le Château d’Eau – Pôle photographique Toulouse, in collaborazione con Arc en rêve centre d’architecture di Bordeaux),

Pensando ad altri suoi progetti, a partire da «Citytellers», questo film sembra un po’ diverso…
Quando la direttrice mi ha invitato e con lei ho fatto il primo sopralluogo, qui a Deauville, mi sono trovato in difficoltà. Non sono riuscito a trovare un calibro rispetto alla natura del luogo, sia dal punto di vista fisico-spaziale che delle mie politiche culturali. Negli ultimi quindici anni il mio lavoro si è fondamentalmente concentrato su questioni finanziarie, economiche, geopolitiche, antropologiche e questo è un luogo troppo fortunato perché, in qualche modo, potessi trovare una sorta d’ingresso. Invece, mi ha affascinato l’idea di un festival con una storia lunga e un gran numero di artisti invitati nell’arco di oltre dieci anni.
Ho immaginato che ciascuno di loro avesse realizzato tantissime immagini in uno spazio così costretto e che ogni angolo – fregio, vetrina, collina, cavallo – avesse ricevuto l’attenzione di miriadi di fotografie. Questo mi ha dato lo spunto per ragionare su un tema che non è di contenuto ma di forma: quale necessità abbiamo ancora oggi di produrre immagini e immaginari. Ho fatto un po’ di ricerche e ho scoperto che l’anno scorso sono state realizzate e caricate nelle cloud, o comunque negli storage, un trilione e 700 miliardi di fotografie delle quali forse non abbiamo alcun bisogno. Il film che ho realizzato, in realtà, è molto ironico, sarcastico e minimale. Ho cercato di renderlo il più infantile e fanciullesco possibile, per questo ho usato anche la tecnica dello stop motion e i pupazzi action figure giapponesi, rifacendomi alla cultura manga delle anime. Ho immaginato l’atterraggio, per via di un guasto, di un’astronave aliena dove un antropologo che è anche fotografo, vista la sua natura monoculare, nel tempo necessario affinché la sua favolosa astronave si autoripari per poter tornare nel suo pianeta natale, fa una passeggiata a Deauville. Cosa avrebbe visto? Era un ragionamento. L’unica parte seria del gioco è la riflessione su cosa dobbiamo fare per tornare a un grado zero della visione, per restituire una sorta di verginità dove non esistono gerarchie dello sguardo né categorie e azioni visive pregresse con cui confrontarci. Mi sono posto questa domanda e le 44 visioni dell’antropologo alieno – anche il fatto di scegliere un numero palindromo serviva per continuare a giocare con una predisposizione infantile – nascono dall’idea di cercare io per primo di fare un esercizio. Non essendo un amante della cultura flaneristica, ho cercato di muovere dei passi per raccogliere schegge di paesaggi antropici, ma libero dalla retorica e dal bagaglio pregiudiziale della nostra cultura visiva. Il progetto è un fallimento totale perché non possiamo scarnificare tutto. Diciamo che, in modo ludico, era come se nel film un pollo, un ombrello, un bambino, una bandiera, le foto di Depardon… fossero tutti oggetti sconosciuti e, quindi, cosa vuol dire immaginare di osservare ogni cosa come se fosse la prima volta.

Architettura e fotografia hanno sempre vissuto parallelamente?
La fotografia e l’arte sono un qualcosa che appartiene alla mia famiglia è inutile girarci intorno, ma qui l’attitudine è l’urbanistica, soprattutto il modo in cui i paesaggi sociali adulterano la natura dello spazio. Non sono mai stato interessato all’architettura di Gehry o Piano, alle sculture che piombano sul territorio, mi interessano le architetture fragili, friabili che in qualche modo vengono adottate e modificate. Il motivo per cui, poi, dall’architettura e dall’urbanistica il mio lavoro si è modificato con un’attenzione fortemente antropologica prima e geopolitica dopo – partendo dalle megalopoli di What we want (2004) – nasce soprattutto dalla possibilità di capire il sistema di relazione tra pietre e persone, tra paesaggio urbano e umano: la capacità di adottare, performare, antropizzare, trasformare del paesaggio fisico in relazione alle grandi comunità.

Francesco Jodice fotografato da Manuela De Leonardis

Come si pone rispetto alla sua importante tradizione familiare?
Ho avuto la grandissima fortuna di crescere in una casa che era una sorta di grande babele culturale, ma soprattutto un luogo non monoteista dove c’era dalla musica classica e contemporanea alla fotografia, narrativa, poesia, fumetti, cinema… La sera era una specie di wunderkammern molto isterica nella sua bellezza. Mia mamma era legata a tutti gli ambienti napoletani della scrittura, con Domenico Rea e altri grandi scrittori, mio padre invece iniziava a frequentare il mondo della fotografia e dell’arte. Parliamo della fine degli anni ’70 e anche se ero un bambino, avevo quell’età in cui non capisci ma senti, una forma di ascolto che è più importante di quella che, secondo me, avviene quando si è già in grado di elaborare. La mia famiglia era anche vicina alla storia del Partito comunista. Ricordo i festeggiamenti – lo stappare bottiglie di vino, ma forse erano spumantelli perché eravamo poveri – e le lacrime quando ci furono le vittorie per il referendum del divorzio e dell’aborto. Allora non capivo quale fosse il valore di questi diritti in un paese così pesantemente ammorbato dalla cultura cattolica, però percepivo che era qualcosa d’importante che non riguardava solo il singolo. C’era, poi, l’ambiente dell’arte contemporanea legato ai grandi galleristi come Lucio Amelio, Pasquale Trisorio, una giovanissima Lia Rumma, Morra. Era un vagabondaggio… Vedevi passare per casa un signore con la parrucca bianca senza sapere che era Andy Warhol, oppure uno con il cappello di feltro come Joseph Beuys, personaggi talmente istrionici che sembra di avere intorno degli sciamani.
In realtà, non è stata soltanto la passione per la letteratura di mamma o la cultura fotografica di papà, ma l’idea che da questa grande biblioteca alessandrina dei saperi si potessero prendere tanti frammenti, che poi è quello che faccio nel mio lavoro. I miei riferimenti vanno dalla musica al cinema, videogiochi, serie televisive, fumetti, narrativa, saggistica… l’idea è prendere varie schegge e metterle in una zuppa che diventa il cretto finale e la materia sulla quale lavorare.

In che modo il suo lavoro è influenzato dai fumetti?
I fumetti sono un’eredità che arriva da mia madre Angela, perché lei usava quelli originali americani della Marvel Comics per insegnare l’inglese a noi figli. La sera, invece di una fiaba, ci leggeva una pagina di Spider-Man o dei Fantastici Quattro. Il fumetto aveva una grande qualità, metteva insieme le due culture che circolavano in casa, la scrittura e le immagini, ma soprattutto è l’origine del cinema. Ha influenzato molto il mio lavoro sia come filmmaker che come fotografo e installatore. In tutti i miei progetti c’è sempre il senso della sequenza, un continuum narrativo. Un racconto in cui non importa quanto disegni bene ma come il disegno accompagni lo spettatore nella scena. È ciò che faccio: accompagnare lo spettatore su una piattaforma, su un osservatorio per poi abbandonarlo lì.