Ancora una volta, papa Francesco ha sopreso tutti. È successo a Yerevan, capitale dell’Armenia, durante la tre giorni di visita nel Paese caucasico iniziata venerdì. Un fuori programma gravido di conseguenze per la politica internazionale, destinato a suscitare le ire di Erdogan, ma anche a vincere forti resitenze all’interno del Vaticano stesso. Il tutto per una parola, «genocidio», che a cent’anni di distanza dallo sterminio degli armeni pesa ancora come un macigno. Ma Francesco, si sa, ama andare contro corrente e sa colpire duro anche fra le sue file, quando necessario.

Come già nel 2015, il pontefice ha preferito non ascoltare i timori e le reticenze della diplomazia vaticana, cambiando il programma all’ultimo momento. Come ha ricordato padre Lombardi nella condeferenza stampa di venerdì: «la realtà è chiara, e non abbiamo rinnegato quanto è reale». Un’ennesimo schiaffo alla Turchia – erede dell’Impero ottomano che pianificò e mise in atto quello sterminio nel 1915 – che arriva a pochi giorni dal riconoscimento del genocidio armeno fatto dal parlamento tedesco, il Bundestag. Ma, come nella risoluzione approvata in Germania, Francesco ha voluto ribadire qualcosa in più di una generica condanna ai turchi. Nel primo giorno della visita, ha sottolineato le complicità delle potenze europee, che «guardavano dall’altra parte» mentre si compiva la prima delle «tre grandi tragedie inaudite» – come le aveva definite Francesco lo scorso anno a Roma – che hanno segnato il ventesimo secolo: il genocidio degli armeni (insieme a quello di siri cattolici e ortodossi, assiri, caldei e greci), il nazismo e lo stalinismo.

Ma non si è parlato solo del passato e delle sue ferite aperte, in questo viaggio che si concluderà oggi con il rientro di Francesco a Roma. Al centro delle parole del pontefice anche l’ecumenismo e la riconciliazione fra Turchia e Armenia, un tema molto caro al papa. Non è mancato, infine, nell’intervento di sabato in piazza della Repubblica a Yerevan, un breve accenno al conflitto del Nagorno-Karabakh, che ha conosciuto a inzio aprile un’escalation senza precendenti, facendo trecento morti in quattro giorni di scontri.

La visita papale si è aperta venerdì – dopo la cerimonia d’accoglienza all’aeroporto – con la visita a Echmiadzin, cittadina a pochi chilometri dalla capitale, che è il cuore della chiesa armena. Qui il pontefice ha incontrato Karekin II, catholicos di tutti gli armeni, leader spirituale della chiesa apostolica. Una chiesa antichissima, che portò all’alba del IV secolo alla conversione del popolo armeno, prima nazione al mondo ad abbracciare il cristianesimo. In questo incontro Francesco ha posto il suo accento sul dialogo e sull’ecumenismo.

A seguire, la visita al palazzo presidenziale, dove Francesco ha incontrato il presidente armeno Serj Sargsyan, alla guida di questa Repubblica nata con la dissoluzione dell’Unione sovietica. E qui Francesco è andato subito dritto al punto, lasciando sopresi in molti. Riferendosi all’olocausto armeno, ha affermato: «Quella tragedia, quel genocidio, inaugurò purtroppo il triste elenco delle immani catastrofi del secolo scorso, rese possibili da aberranti motivazioni razziali, ideologiche o religiose, che ottenebrarono la mente dei carnefici fino al punto di prefiggersi l’intento di annientare interi popoli». Non sono mancate infine parole di sostegno all’Armenia. Il pontefice si è congratulato con il presidente per il 25° anniversario dell’indipendenza del Paese, invitando gli armeni a «fare memoria dei traguardi raggiunti e per proporsi nuove mete a cui tendere».

Sabato invece il viaggio di Francesco è proseguito con la visita al memoriale del genocidio armeno, situato subito fuori dal centro di Yerevan (nella foto LaPresse). Qui il papa ha prestato omaggio al milione e mezzo di vittime di questo genocidio, deponendo dei fiori al fuoco perenne che si trova al centro di questo monumento di epoca sovietica. Francesco ha inoltre incontrato alcuni discendenti degli orfani del genocidio, e ha lasciato la traccia – come da tradizione – di un albero piantato nel giardino di fronte al monumeto, in memoria della sua storica visita.

Dopo il memoriale del genocidio, papa Francesco è volato a Gyumri, una città nel nord del Paese con alle spalle una lunga storia di sofferenze, ma anche con un presente problematico. Pesano oggi la disoccupazione e la continua emigrazione dei suoi cittadini, che lasciano la città per cercare fortuna in Russia o in Europa. Un tracollo demografico, seguito al terremoto del 1988, quando morirono 25.000 persone.

Dei 222.000 abitanti registrati nel censimento sovietico del 1984, ne restano poco più di 120.000. Una perdita costante che non ha avuto fine neanche di recente. Ultimi fra gli ultimi, in una nazione allo stremo, gli abitanti della città – che ha un’importante minoranza cattolica – hanno accolto con grande calore il papa, che ha visitato le due cattedrali cittadine, e ha incontrato dei rifugiati siriani.

Tappa finale della giornata di sabato, l’incontro con una folla oceanica in piazza della Repubblica a Yerevan. Là dove fino a un quarto di secolo fa c’era la statua di Lenin – a cui questa piazza era dedicata – Francesco ha incontrato migliaia di armeni accorsi per prestargli omaggio. L’accento è stato posto sulla riconciliazione, e il papa ha chiesto ai giovani di «diventari costruttori di pace, non notai dello status quo». Un riferimento alla Turchia, ma anche e soprattutto al conflitto con l’Azerbaigian, che si trascina da oltre vent’anni e sembra oggi più lontano che mai da una soluzione. «Che la pace sorga anche in Nagorno-Karabakh», ha dichiarato il papa, fra gli applausi del pubblico accorso per incontrarlo.

Foto di Simone Zoppellaro