«Uomo di grande eloquenza, lieto in volto, di sguardo benigno, immune da indolenza, privo di arroganza. Di statura media tendente al basso, testa media e rotonda, viso allungato e sporgente, fronte piatta e piccola, occhi di media grandezza, neri e semplici, capelli scuri, sopraccigli diritti, naso regolare, sottile e diritto, orecchie accostate ma piccole, tempie piane, lingua pacifica, infuocata e tagliente, voce vigorosa, dolce, chiara e sonora, denti uniti, bianchi e regolari, labbra non grandi e sottili, barba nera e rada, collo sottile, spalle diritte, braccia corte, mani esili, dita lunghe, unghie sporgenti, gambe sottili, piedi piccoli, pelle delicata, poca carne, abito ruvido, sonno brevissimo, mano grandissima». Così è ritratto Francesco di Assisi nella prima Vita di Tommaso da Celano. Abbiamo dunque un identikit fotografico; eppure, se vogliamo immaginarci la sua figura fisica non possiamo sfuggire alle icone che la pittura o il cinema ce ne hanno trasmesso.
Se forse non si è impresso nella nostra memoria l’Elio Germano del 2016, è difficile dimenticare il drammatico Mickey Rourke nell’intenso Francesco di Liliana Cavani (1989) o l’irenico Graham Faulkner nell’oleografico Fratello Sole, sorella Luna di Zeffirelli, senza voler risalire al rigido ma carismatico fraticello di Giotto. È questa la differenza, ormai insuperabile, tra «frate Francesco in sé» e «san Francesco per noi» cui allude Grado Giovanni Merlo introducendo la raccolta di ventidue saggi su Francesco da Assisi Storia, arte, mito curata da Marina Benedetti e Tomaso Subini (Carocci editore «Frecce», pp. 374, e 31,00). Nonostante il flusso inarrestabile degli studi, delle sintesi e rivisitazioni che escono ogni mese su san Francesco, quest’opera collettiva riesce a proporre letture nuove e accostamenti inediti per ampiezza del raggio di osservazione e varietà (e qualità) di approcci: dal teatro medievale e moderno ai libri per ragazzi, dai cartoni animati ai santini, dai romanzi francesi alle immagini sulle monete, dalla teologia all’iconografia antica e moderna.
Dalla semplicità al semplicismo
Si apre con il saggio a carattere storico-antropologico di Marina Benedetti sull’aneddoto della «vera letizia» riportato in diverse raccolte di storie francescane e universalmente noto nella versione edulcorata dei Fioretti, volgarizzamento degli Actus beati Francisci: una serie di domande e risposte, dettata dal santo al suo discepolo Leone, che comunica un concetto di serenità legata non al successo personale o sociale, e nemmeno religioso o istituzionale, ma alla capacità di sopportare le offese senza soffrirne. L’analisi del passaggio dalla semplicità di una versione al semplicismo dell’altra è occasione per un quadro, forzatamente complesso e parziale, della realtà intricata e sfuggente delle fonti francescane in cui, dopo gli storici sforzi di Menestò, Miccoli, Bartoli Langeli, Merlo e tanti altri, ha cercato di portare un po’ di ordine la recente edizione commentata della Letteratura francescana diretta da Claudio Leonardi per la Fondazione Valla (che però non sembra utilizzata in questo volume). Ma anche questo quadro ha già bisogno di un riassestamento, dopo che Jacques Dalarun ha scoperto in un manoscritto francese una terza redazione della vita di Tommaso da Celano, una di quelle messe fuori circolazione dalla nuova biografia «ufficiale» di Bonaventura.
Sul piano dell’immagine, Francesco Mores esplora la primitiva iconografia del santo, esplosa poi con la novità delle stimmate che ha messo «in moto l’immaginazione dei suoi contemporanei come nessun’altra figura del Medioevo» (Krüger) e ha alimentato un florido dibattito fra storici, filosofi e iconologi. Mores si muove dal celebre «ritratto» con cappuccio a punta del sacro Speco di Subiaco, che si riteneva eseguito ancora in vita, ed è comunque anteriore alla beatificazione, datandolo a epoca successiva (dopo l’elezione pontificia del filo-francescano Ugolino di Segni nel 1227) sulla base di un’iscrizione dell’affresco che si trova di fronte. L’immagine con cappuccio a punta era attestata anche in una tavola a San Miniato di Pisa, oggi perduta, ma l’iconografia cambia con il Francesco altissimo fra due angeli e a testa nuda, intonsurata del Maestro della Porziuncola (1255) fino ai frammenti antichi (1228-’61) scoperti nel 1967 dietro una parete murata della chiesa della Vergine Kyriotissa di Istanbul (oggi moschea Kalenderhane), che rappresentano il santo fra due Padri greci più grandi di lui e accompagnato da dieci scene prive dell’episodio delle stimmate.
Nella sezione dedicata alle interpretazioni filosofico-politiche spicca la storia sorprendente, presentata da Gabriele Piretti, del Francesco bollato come psicotico dalla psichiatria otto-novecentesca, in particolare da Giuseppe Portigliotti, un lombrosiano che in uno studio del 1909 colloca il santo all’interno di un quadro di delirio sociale provocato dalle crisi religiose, coniando per lui la diagnosi di clasmofilia (desiderio di umiliazione), associata allo stato allucinatorio già diagnosticato da Alfred Maury e all’abulia definita «mistica», cioè derivata da una subordinazione dell’individuo alla divinità. Nella stessa sezione Daniele Menozzi traccia con acutezza il percorso che ha portato, su spinta di Mussolini originata dalla presunta compatibilità dell’immagine di Francesco con impostazioni anticlericali, alla proposta del santo come patrono d’Italia, prima avversata da Pio XI per il rischio che l’esaltazione dell’amor di Patria oscurasse la specificità religiosa, poi accettata da Pio XII nel giugno 1939 come modello di un ruolo pacificatore che l’Italia dell’epoca immaginava di poter svolgere nel consesso internazionale.
Rossellini democristiano
Questa scelta portò alla ripresa delle rappresentazioni anche cinematografiche, già avviate a inizio secolo da Il poverello di Assisi di Enrico Guazzoni (1911), presentate qui da Davide Sironi e Gianluca della Maggiore. Raffaele De Berti sviluppa la storia di san Francesco nel grande schermo soffermandosi su Frate Sole di Ugo Falena (1918) e Frate Francesco di Giulio Antamoro (1927), mentre Tomaso Subini indaga sulle due imprese di Rossellini – Francesco giullare di Dio attribuito impietosamente al desiderio del regista di entrare nelle grazie dell’establishment democristiano – e di Antonioni, al quale la RAI aveva commissionato a inizio anni ottanta un progetto di cui si documentano perfino le trattative economiche e le preoccupazioni per le possibili derive marxiste, ma che dopo l’ictus del Maestro (1985) venne definitivamente abbandonato e poi ereditato da Liliana Cavani. Del lavoro di Zeffirelli tratta invece Emilio Sala, che ne ricostruisce, partiture alla mano, la genesi della colonna sonora, di cui si ricorderà il tema portante, composto da Riz Ortolani a partire da una lauda medievale con testo di sua moglie Katyna Ranieri, e cantato da Claudio Baglioni che lo portò a un successo travolgente. Delle moltissime altre rese cinematografiche si citano solo, nel saggio di Pierre-Paul Carotenuto, i frammenti di Pasolini, che desacralizza Francesco e i francescani in Uccellacci e uccellini e ne parodizza la comunicazione verbale in un pastiche linguistico fra arcaismi e dialetto. Anche nel suo caso il progetto narrativo e cinematografico dedicato a una sorta di anti-Francesco, Bestemmia, non vide mai la luce ma influenzò Accattone e alcune poesie sia in scelte stilistiche sia nell’idea di una «santità sottoproletaria».
Due ma fondamentali i capitoli sul teatro, così consentaneo al sistema di comunicazione del Francesco «storico». Quello di Fabrizio Fiaschini, dedicato soprattutto a Dario Fo, che trasforma elementi della narrazione francescana in stilemi permanenti del meccanismo rappresentativo, e a Jerzy Grotowski, che dell’attore santo fa il paradigma del suo teatro povero; e quello di Carla Bino, che esemplifica la spinta teatralizzante della narrazione originaria attraverso tre esempi: fra questi il Natale di Greccio, con cui si «segna il passaggio dal teatro mentale alla concreta azione drammatica», passaggio già noto al Medioevo degli Officia, ma importato da Francesco in una dimensione rurale e domestica che le Sacre Rappresentazioni non avevano. Del resto Francesco è figura teatrale di per sé come archetipo dello ioculator Domini, saltimbanco inseguito dal disprezzo sociale e morale. L’aveva intuito, come al solito, Erich Auerbach quando in Mimesis scriveva che la vita stessa del santo suscitò un terremoto nelle forme di messa in scena teatrale perché «tutto quello che fece fu una rappresentazione» grazie a modalità espressive direttamente leggibili dal pubblico. Il «Frate Francesco in sé» era «san Francesco per noi» già prima di lasciarci capire chi era veramente.