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Francesco Filidei, dalle ceneri del melodramma

Francesco Filidei, dalle ceneri del melodrammaFrancesco Filidei (Ricordi, Harald Hoffmann)

Intervista Il compositore si racconta, fra tradizione e innovazione, mentre è in preparazione il suo nuovo lavoro, «Il nome della rosa», che debutterà alla Scala nel 2025

Pubblicato circa un mese faEdizione del 17 agosto 2024

Francesco Filidei è tra i compositori più importanti della sua generazione, negli ultimi anni ha dedicato particolare attenzione all’opera lirica. Il suo primo lavoro operistico, Giordano Bruno, ha debuttato in Portogallo nel 2015 riscuotendo un enorme successo di pubblico e critica, nel 2019 L’inondation è andata in scena all’Opéra Comique di Parigi. La sua nuova opera, Il nome della rosa, è stata commissionata dal Teatro alla Scala e dall’Opéra national de Paris in coproduzione con il Teatro Carlo Felice di Genova e andrà in scena in anteprima alla Scala nel 2025.

«Il nome della rosa» è il suo terzo titolo operistico, nel suo catalogo però sono presenti molti lavori che comprendono l’aspetto performativo e teatrale, qual è il rapporto che ha con la musica che diventa teatro?
Probabilmente in quanto italiano ho sempre sentito l’opera più di ogni altra cosa e ho sempre cercato l’aspetto melodrammatico nei miei lavori. Fino a un certo periodo della mia vita però la mancanza di possibilità effettive di sviluppare un discorso teatrale, mi ha costretto a risolvere in altri modi questa esigenza. A volte con l’economia di mezzi si inventano anche soluzioni interessanti, come per esempio uno dei primi lavori, Antinoo del 1999, che era praticamente teatro musicale ma dentro al proprio corpo, cioè con i tappi nelle orecchie, dove i suoni e i rumori della respirazione, della saliva e dei denti battuti, erano tutti scritti e organizzati ritmicamente. Il compositore costruisce il tempo e lo può fare con gesti, con movimenti con respiri e con qualsiasi cosa che possa essere composta, come in un gioco di scacchi. Nei primi lavori c’era sempre il desiderio di andare verso il teatro, però era sempre un teatro controllato in una specie di contrappunto astratto, dettato anche dalla necessità che sentivo di far cantare le cose che di per sé non cantano. Questo lo realizzavo attraverso la scarnificazione del suono, di cui ne restava solo il rumore, quasi come uno scheletro privo di carne. Questa esperienza la affrontavo come una sorta di Quaresima, come a mantenere vivo il desiderio delle cose negandosele, mi riferisco ai lavori degli anni 90: Toccata, Danza Macabra, Texture ecc., adesso la difficoltà è maggiore perché sto cercando di far cantare le cose che cantano già da sole, come in un’opera.

Cosa significa scrivere un’opera oggi?
L’opera è una forma del passato, concepita per un’altra cultura e che ha dato il massimo in altre epoche, dove appunto Verdi o Puccini avevano un impatto globale sulla cultura musicale del periodo; oggi questo tipo di esperienza è marginale rispetto al rapporto con la società. Il fascino di una forma che non è più, la nostalgia che provoca qualcosa che non appartiene più al presente la trovo irresistibile e molto più potente di quello che mi può dare uno strumento attuale. Con l’opera è come avere un cadavere che cerchi di rianimare, per questo ho guardato alla tradizione, cercando naturalmente di darle una visione da contemporaneo quale per forza di cose sono. Vado in quella direzione e sento forte la necessità di portare avanti proprio la tradizione lirica italiana, che sono le radici che non posso evadere.

Esiste oggi una tradizione lirica italiana?
L’opera è nata in Italia e dal mio punto di vista ci siamo giocati la nostra tradizione durante le due guerre. C’è stato quasi uno scisma, da una parte abbiamo avuto Sanremo e dall’altra invece compositori che hanno fatto ricerca guardando altrove, esperienze nuove e molto stimolanti certo, ma credo si sia persa un’identità molto forte e penso che anche i compositori abbiano avuto le loro responsabilità. Anche la questione dell’educazione musicale italiana penso abbia perso di vista quella che era una sensibilità del paese. A scuola tutti abbiamo studiato Manzoni, bellissimo I Promessi Sposi, però se vai all’estero conoscono soprattutto Verdi o Puccini perché rappresentano una delle espressioni più forti del nostro paese. Puccini poi è molto più moderno di tanti altri che hanno composto utilizzando la dodecafonia o il serialismo integrale, la sua musica non è per niente invecchiata, è incredibile. C’è stata un’intera generazione però che lo ha rifiutato, Abbado non lo ha praticamente mai diretto ad esempio, non si capisce bene perché e questo è un peccato. Anche nell’ambito del mondo culturale è avvenuto qualcosa di simile, Umberto Eco faceva parte del Gruppo 63, tra gli altri c’erano Balestrini e Sanguineti che hanno scritto dei capolavori, ma appunto sono leggibili solo da una nicchia di persone. Eco invece è riuscito, con Il nome della rosa, a realizzare un’opera che può essere letta sia dall’intellettuale che dal lettore comune, ci sono diversi livelli di lettura, da quello più immediato a quello più complesso. Allora perché non possiamo pensare ad una musica che abbia diversi livelli di ascolto? Perché non possiamo avere un primo livello più immediato di cantabilità e altri livelli più profondi?

Come si sviluppano questi diversi livelli nella sua nuova opera?
Vi è un livello di ricerca più complesso e profondo che sviluppo nella costruzione della forma, nell’orchestrazione e nel lavoro sul suono e sul timbro. Invece le parti vocali, in linea di massima, sono abbastanza tradizionali se si vuole, costruite sui canti del gregoriano che ho utilizzato (nel lavoro di Eco c’è tutto un discorso che nasce proprio dal gregoriano). Questa scelta dello sviluppo delle parti vocali è dettata anche dal fatto che mi interessa avere dei cantanti che cantano, nel sistema opera c’è un pubblico che va a teatro per ascoltare la voce dei cantanti e mi interessa lavorare su qualcosa che possa al contempo essere nuova e stimolante ma che permetta anche di coinvolgere quel pubblico che difficilmente si avvicinerebbe alla musica contemporanea.

Parlava prima di costruzione della forma, com’è strutturata l’opera? Qual è stato il lavoro fatto sul testo di Eco?
Ridurre Il nome della rosa a meno di tre ore non è stata un’impresa semplice, con i collaboratori abbiamo impiegato un anno e mezzo di lavoro e siamo stati obbligati a trovare diverse soluzioni perché, tra l’altro, non potevamo mettere tutti i personaggi in scena, nonostante alla fine ne avremo 21. La struttura temporale del romanzo è divisa in sette giornate ed ogni giornata è divisa in ore liturgiche, volevo quindi seguire ogni ora liturgica cercando i canti gregoriani propri della seconda settimana di dicembre del 1327 e quindi far respirare tutto seguendo i canti, sia dei monaci con le loro arie, che dell’abbazia stessa (ci sarà un grande coro che rappresenta praticamente le mura dell’abbazia che canta). Non ho potuto però riprendere questa struttura delle ore liturgiche e ne ho dovuta costruire un’altra per avere questa forma chiusa che mi interessava. Il sistema è stato lo stesso che ho impiegato per altri lavori. L’opera ha una struttura frattale ed è divisa in 2 atti composti ognuno da 12 scene più un prologo e un ultimo foglio, ogni scena è imperniata su una nota di riferimento, partendo dal prologo con il do, sino alla fine del primo atto con il fa diesis con l’incontro d’amore con la ragazza. Ho scelto di partire da determinate note perché volevo che certe cose avvenissero esattamente con un preciso colore, fa diesis ad esempio è la tonalità di Après une lecture du Dante di Listz, dove c’è Beatrice che rappresenta l’elemento femminile idealizzato. Il primo atto va ad aprirsi e il secondo a chiudersi, la struttura generale descrive la forma di una rosa e nello stesso tempo di un labirinto.

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Francesco Filidei, organista e compositore, è nato a Pisa nel 1973, ha studiato presso il Conservatorio di Firenze e successivamente presso IL CNSMD di Parigi. È stato invitato nei più importanti festival musicali di tutto il mondo, ottenendo numerosi premi e riconoscimenti a livello internazionale. Nel 2016 è stato nominato Chevalier des Arts et des Lettres dal Ministero della Cultura francese e nel 2017 è stato indicato da Classic Voice tra i dieci compositori più interessanti del panorama internazionale. Dal 2018 le sue opere sono pubblicate da Casa Ricordi.

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