Alias Domenica

Francesco Casetti, realtà negoziata nella sala buia

Francesco Casetti, realtà negoziata nella sala buiaIngmar Bergman, «Persona», 1966

«Schermare le paure» Cinema, fantasmagoria e web, un sistema di proiezione-protezione: un saggio di Francesco Casetti per Bompiani

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 8 ottobre 2023

Dopo L’occhio del Novecento (2005) e La galassia Lumière (2015), entrambi usciti da Bompiani, Francesco Casetti aggiunge ora un altro importante contributo alla sua originale riflessione sulle forme di esperienza che i media centrati sull’immagine hanno la capacità di farci fare: Schermare le paure I media tra proiezione e protezione (Bompiani, euro 25,00, pp. 273).

È precisamente in questo senso, diciamolo subito, che il cinema e i media digitali – ma anche, in questo libro, gli spettacoli di fantasmagoria che anticiparono entrambi a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo – sono da considerare come dei «dispositivi» che istruiscono la nostra «tecno-sensibilità» (così la chiama l’autore) grazie all’allestimento di un assemblaggio di componenti all’interno del quale l’esperienza delle immagini assume di volta in volta forme caratteristiche, e talvolta durevoli, di organizzazione. Questo limpido concetto di dispositivo esperienziale deve qualcosa a Heidegger, che identificava l’«epoca dell’immagine del mondo», cioè la nostra, con un insieme coeso di dispositivi (un Ge-stell, nella sua terminologia) e deve molto a Foucault, un interlocutore da sempre cruciale per Casetti, ma qui presente in modo più profondo e più costante.

L’architettura del testo, molto attenta, merita qualche parola. A un primo ampio capitolo di carattere teorico-metodologico ne fanno seguito tre, rispettivamente dedicati ai dispositivi approntati dalla fantasmagoria, dal cinema, dal web; una lucida ricognizione sulle questioni ancora aperte, un epilogo e una consistente sezione dedicata alle note chiudono il libro. Tra i capitoli dal primo al quinto l’autore ha interpolato quattro brevi intermezzi: si tratta dell’analisi di tre film e di un corpus di brevissime clip prodotte nella Factory di Andy Warhol che offrono all’approccio teorico un preciso conforto ‘per immagini’. Va osservato che il cinema occupa, in tutti i sensi, il centro del volume, non solo per ragioni di continuità con la ricerca pluriennale dell’autore ma anche perché la sua esemplarità si costituisce come un raccordo insostituibile rispetto agli altri due oggetti sottoposti ad analisi: la fantasmagoria e alcuni format del web.

Chiariamo meglio questo punto: secondo la tesi centrale di Schermare le paure il cinema è un «dispositivo ottico-spaziale che combina due elementi fondamentali – uno spazio chiuso, separato dal mondo quotidiano, e uno schermo le cui immagini in movimento ristabiliscono il contatto con la realtà da cui gli spettatori sono stati distaccati, o a cui non hanno mai avuto accesso». Con l’aggiunta, di non poco conto, che questa modalità perimetrata, filtrata e protettiva di aver rapporto col mondo reale ci restituisce poi «con gli interessi» la momentanea privazione di un rapporto diretto.

 

Ci proteggiamo dal mondo, insomma, per rientrarvi con uno sguardo più attrezzato. Ora, l’esemplarità del cinema consiste nel fatto che la sua organizzazione ottico-spaziale funge da modello per comprendere meglio quanto di specifico hanno la fantasmagoria e il web, ma anche per configurare un movimento genealogico non rettilineo che li sussume sotto uno schema unitario, definito da Casetti come un «complesso proiezione/protezione». Dove, scrive l’autore, «in sintonia con i suoi significati sia psicoanalitici sia economici, ‘complesso’ significa un insieme di elementi e operazioni correlate, mirato a creare un confronto ‘protetto’ con il mondo, e allo stesso tempo a ‘proiettare’ gli individui oltre lo spazio sicuro in cui sono collocati».

Il poster del film underground di Andy Warhol «Chelsea Girls», 1966

Per costituirlo in una genealogia, dunque, Casetti deve generalizzare il regime simbolico e le motivazioni antropologiche di questa situazione duplice, ma poi si guarda bene – e proprio in questo si dimostra attento alla lezione di Foucault – dal trarne conclusioni che estendano la generalizzazione fino a farne una sorta di condizione metastorica dell’esperienza umana.

Se ne guarda bene anche se la tentazione sarebbe forte. Che cos’altro è, per fare un solo esempio macroscopico, il linguaggio articolato – il più potente dispositivo di cui homo sapiens si sia dotato – se non un modo di tenere a distanza la pressione (e le minacce) del mondo reale e di incassare incessantemente gli «interessi» di questa mediazione simbolica? Il linguaggio «dispone» nel modo più ampio che si conosca lo spazio di un distanziamento protettivo rispetto al mondo-ambiente (il nome della rosa è privo di spine) e al tempo stesso non smette di riconfigurare e di conferire nuovi significati al mondo ambiente nel quale torna sempre di nuovo a proiettarci. Il prototipo, si potrebbe dire, del complesso «proiezione/protezione».

Ma farsi sedurre da questa versione metastorica del «complesso» di cui il libro studia la natura e gli effetti specifici significherebbe non solo neutralizzare i notevolissimi benefici dell’indagine storico-documentale responsabile della sua individuazione – un’indagine da cui Casetti si preoccupa di far emergere di regola le tesi teoriche da mettere alla prova – ma anche, da un altro punto di vista, significherebbe introdurre di soppiatto una definizione essenzialista dell’essere umano oscurando la più caratteristica delle sue proprietà e cioè quella di essere il soggetto, mai compiuto, di una interminabile epigenesi. Ed eccoci tornati a Foucault e alla sua idea, ben nota ma forse non sempre altrettanto ben compresa, secondo cui l’essere umano altro non sarebbe che un epifenomeno, soggetto al tempo stesso delle e alle tecnologie (in senso ampio) che la sua stessa natura lo spinge a implementare.

Questo notevole quadro teorico-metodologico andava evidenziato, non solo perché il saggio si preoccupa di presentarlo subito al lettore nella sua ampia e sistematica Introduzione ma anche perché l’autore gli affida il compito di definire senza equivoci i limiti e le ambizioni del libro. Nei quattro capitoli che seguono, infatti, non si parlerà genericamente di cinema (o di fantasmagoria o di format digitali) ma ci si preoccuperà di esplorare nel modo più completo possibile il dispositivo ottico-spaziale all’interno del quale queste forme espressive complesse assumono, conservano e modificano la funzione ‘dispositiva’ a cui è dedicato il libro: disconnettere dal mondo per riguadagnare, con il mondo, una connessione nuova e forse più soddisfacente.

Ho dato per scontata, fin qui, una simmetria tra il momento della rottura col mondo esterno e quello della riapertura al mondo esterno. Occorre dire tuttavia che il libro sembra più interessato ad analizzare le infrastrutture del primo che non le virtualità del secondo. E certo ciò dipende innanzitutto dal fatto che nel primo caso si tratta, appunto, di un assemblaggio mobile e riorganizzabile di cui è possibile seguire la nascita e le trasformazioni, mentre nel secondo l’elemento problematico e perfino conflittuale diventa più forte. In che senso la costruzione e la frequentazione di nicchie e bolle protettive avrebbe poi l’effetto di riorganizzare e forse di migliorare la nostra esperienza del mondo ‘vero’?

Non ci troveremmo, piuttosto, di fronte a un movimento che unisce all’esonero provvisorio dalla realtà una pura e semplice compensazione cui non fa seguito alcuna effettiva rigenerazione della nostra comprensione del mondo? Se è vero, inoltre, che il complesso proiezione/protezione porta con sé quest’ultimo rischio addirittura nella forma estrema della patologia claustrofilica (vistosa nel caso del web) o del sequestro in uno spazio puramente simulacrale, la minaccia non si trasferirebbe in ultima analisi all’interno del dispositivo stesso, che in tal modo assumerebbe la funzione delle malattie autoimmuni, quella cioè di aggredire e distruggere, per eccesso di difesa, l’organismo che si vorrebbe proteggere?

Questo scenario è ben presente nel libro di Casetti, che lo affronta tematicamente nell’ultimo capitolo (Strategie di mitigazione) e nell’epilogo (Protezione, iperprotezione e la forza delle immagini sullo schermo), ma lo evoca anche in modo continuativo nella forma di una riflessione sull’elemento in qualche misura apicale del dispositivo ottico-spaziale in questione, vale a dire lo schermo, con tutte le diverse funzioni che esso può assumere: quella di finestra e quella di specchio, quella di scudo e quella di interfaccia, quella di lavagna e quella di paratia.

L’accento cade, come si vede, sull’intima ambivalenza dello schermo, attestata già dal suo nome. Ma se è vero che «nessun oggetto possiede lo status di schermo indipendentemente dal fatto di operare in un contesto specifico» e cioè «di interagire con un gruppo di elementi» e di connettersi «con una serie di pratiche che lo rendono tale», è anche vero che le funzioni sopra indicate evidenziano una distribuzione tutt’altro che sistematica. Non agiscono, cioè, come coppie di opposti impegnabili in un confronto dialettico e sembrano piuttosto rispondere a regimi di gerarchizzazione più intimamente esposti al caso.

Chiuderò con un esempio che non intende erodere il quadro molto coerente che il libro ci propone, quanto piuttosto integrarlo con un elemento che mi sembra sacrificato. Forse a ragione perché non è in tutti i sensi un elemento ottico-spaziale. Ma forse anche a torto perché le due dimensioni vi assumono una forma nuova: precisamente quella di un visuale sottoposto a spaziatura. Mi riferisco allo schermo come lavagna o come display: una superficie sensibile su cui, per così dire, ‘leggere e scrivere immagini’. Che è, certo, un’emergenza interna allo sviluppo specifico, e recente, delle tecnologie digitali, ma risponde anche, e senza riserve, ai requisiti dell’indagine genealogica praticata da Casetti.

Il vantaggio di questa funzione-schermo tipica della versione digitale del «complesso proiezione/protezione» consiste nel fatto che essa ci consente di dare un preciso volto al versante ‘riconnessione’ del dispositivo. E sto pensando all’uso, oggi in via di potente espansione, degli schermi in quanto supporti mobili e plastici di una ‘scrittura immaginale’ per la quale la neuroscienziata e pedagogista Maryanne Wolf ha recentemente parlato di una seconda alfabetizzazione (più precisamente: di un «cervello bi-alfabetizzato») cui sarebbe necessario e urgente assicurare adeguate forme di addestramento. Se questa integrazione ha senso, come credo, l’elemento «proiezione» del complesso studiato da Casetti guadagnerebbe anche una significativa dimensione progettuale.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento