Non è solo un modo di dire dei film di Romero: «a volte ritornano», davvero. Il ministro Franceschini tanto si era adoperato per il nuovo governo, che se non vicepresidente del consiglio causa Di Maio, era dato sicuro per un ministero importante. Invece quello dei beni culturali non deve esserlo tanto, perché questo ritorno a casa, come neanche Lassie, è la prova evidente, che quel ministero è una sorta di ripiego tattico, unica conferma pd ad un incarico già praticato. Il ministro Franceschini ha avuto sicuramente dei meriti in quel dicastero, come il famoso Decreto sullo spettacolo che pure poi era stato spinto a correggere, finché arrivò l’uragano gialloverde.

NON PIU’ DI QUALCHE settimana fa però, il suo successore, appena decaduto, aveva annunciato l’abolizione della riforma firmata Franceschini, dell’intero cervello dei beni culturali, ovvero sovrintendenze e apparati decisionali. Non ha fatto in tempo a chiarire se il processo di riforma fosse stato già avviato, che in questo gioco dell’oca torna al comando l’autore di quello «scempio». Era solo uno scherzo? Sembra un romanzo d’appendice sugli imperatori romani della decandenza… Anche quelli erano legati tutti da parentele più o meno fasulle, ma qui c’è un problema identitario grosso: il predecessore al ministero Bonisoli era in quota ai permalosi alleati 5 stelle.

INTANTO, visto che il rospo dobbiamo ingoiare in questa postmoderna batracomiomachia, Franceschini potrebbe spendere un po’ della sua responsabilità di competenze, proprio col collega di governo Di Maio. Senza riferimenti a grammatica e sintassi, e nemmeno a un corso accelerato d’inglese per i suoi nuovi incarichi planetari. Ma per un fatto maledettamente concreto, e imbarazzante. Se proprio nonno Libero rappresenta un tesoro da perpetuare alle nuove generazioni, sospinga gentilmente Lino Banfi all’Unicef, dove Di Maio lo ha voluto immortalare, avendolo scambiato con l’Unesco. Sempre che la cultura mondiale sia un bene tra quelli culturali, anche da noi.