Francesc Betriu ha sempre rifuggito con destrezza le sirene del cronachismo. I suoi affreschi sociali non hanno mai ceduto al becero sensazionalismo dei gazzettieri indignati. Betriu, che per José Luis García Sánchez e Rafael Azcona era il più «castizo», il più «hispano», dei registi catalani, amava sporcarsi le mani, affondare lo sguardo nella maleodorante palude sociale dell’«esperpento», sperimentare le soluzioni meno nobilitanti agli occhi degli esteti, senza per questo nutrire l’ambizione di oltrepassare i confini del cinema industriale, entro i quali rimase sempre ben radicato. Ogni sua inquadratura, spesso debordante, persino impetuosa nell’affastellare intuizioni dallo scatto mordace, sembrava essere guidata dalla sola bussola dell’istinto. Essendo poco propenso a dispiegare i preziosismi della forma, i bizantinismi dello stile, non si espresse con altrettanta scioltezza nell’affresco storico d’impronta accademica (negli anni Ottanta, durante il boom del cinema medio «di qualità», adattò due eminenti romanzi di Mercè Rodoreda e Ramón J. Sender, La plaça del Diamant e Réquiem por un campesino español, con esiti più che dignitosi, in particolare nel primo caso, ma certo non irresistibili). Era nella commedia, rivisitata dalle parti del callejón del Gato, e raccolto il testimone di Azcona, Ferreri, Berlanga, Zabalza, Fernán Gómez, che ritrovava se stesso: l’amore per la strada, per i perdenti, in ogni caso mai compatiti, semmai sottomessi con premurosa spietatezza alla livella della satira, che non riconosce alcuna disparità sociale (checché ne dicano le vestali della correttezza politica). La sua poetica affondava le radici nell’humus più autentico della cultura spagnola, cultura rivisitata però da una prospettiva eteroclita, dall’estremo lembo nord-orientale della penisola iberica, laddove le onde del mare si rifrangono ai piedi dei bassifondi portuali, il Raval, il Gotico, il Born, la Barceloneta, templi supremi della perdizione, patrie eccellenti della corruzione e del vizio. In quei vicoli, dove il sordido non sa esprimersi se non imboccando i sentieri dell’eccentricità, e gli aromi del caffè e dell’assenzio culminano nelle asprezze della più respingente cloaca, albergano tutt’oggi i fantasmi di Jean Genet e Jean Gabin, nonché di tutti gli anonimi avventurieri, gli irregolari, i loser, che li hanno attraversati nell’avvicendarsi dei decenni (una memorabile sequenza de La bandera, 1935, di Julien Duvivier fu girata all’interno del leggendario cabaret La Criolla, nell’allora Barrio Chino, calle Cid 10, dove negli stessi anni il poeta di Notre-Dame-des-Fleurs era solito concedersi ai migliori offerenti, fra istinti desideranti e pulsioni autodistruttive). Un patrimonio di storie e atmosfere che Betriu è andato costantemente aggiornando e reinventando, con dedizione pressoché certosina. La dedizione di chi fra quei vicoli si sente, ed è, di casa.

RAVAL, AMORE MIO
Al Raval, d’altronde, Betriu dedicò uno dei suoi film più divertenti e sentiti, di certo il più struggente, Sinatra (1988), tratto da un bel romanzo dell’argentino Raúl Núñez. Qui Alfredo Landa, attore di rara intensità troppo spesso riciclatosi nella farsa a buon mercato (e sia chiaro che chi scrive non disdegna la farsa, tutt’altro, ma solo quando questa sa attentare con viva arroganza al galateo propagandato dai sopracciò delle accademie), si perde nei vicoli che costeggiano la Rambla dels Flors, con la consapevolezza di non potersi né sapersi ritrovare. Ai tentacolari labirinti del Distrito Quinto il regista tornò solo vent’anni dopo per il suo penultimo lavoro, Mónica del Raval (2009), documentario stilisticamente dimesso, di un romanticismo spinto e affilato, su un’adorabile mercenaria del sesso: una donna-monumento, campionessa e capolavoro di body art, appendice vivente agli immaginari di Rubens, Fellini e Almodóvar. Quasi un film testamento che la stessa Mónica, al secolo Ramona Coronado García, in un eccesso di affabile narcisismo, continua tuttora a smerciare in totale autonomia per le strade del quartiere (ovviamente in copie Dvd artigianali, da lei stessa masterizzate).

UMORISMO NERO
Amava spingere l’humor negro fino a estremi di deformazione assoluti, il buon Betriu. Furia española (1975), sua opera seconda, pare sia stato l’ultimo film visto dal Generalissimo Franco prima che i becchini gli scavassero la fossa (com’è noto, dalla metà degli anni Quaranta in poi, il Palazzo del Pardo si convertiva con rituale frequenza – almeno due sere a settimana, attestano i recenti studi di Caparrós e Crusells – nella sala cinematografica dei potenti, pigro trastullo per il «tío Paco» e i suoi più stretti accoliti). Le malelingue vogliono che proprio Furia española, una satira grottesca sul proletariato catalano, sessualmente represso e abbindolato dalle false illusioni del tifo calcistico, abbia contribuito ad aggravare lo stato di salute, già assai claudicante, del Caudillo. Il film, reo di non aver ricalcato alla lettera il copione previamente depositato al Ministero, intitolato Una pasión azulgrana, fu sottoposto a 21 tagli di censura che ne ridussero il metraggio a poco più di un’ora e un quarto. Ma è giustappunto nei buchi di sceneggiatura, nell’audace incoerenza dell’impianto drammaturgico – già in nuce nel progetto originario e amplificata a dismisura dal vandalismo censorio – a risiedere il fascino di un’opera che rivendica un rapporto di filiazione con lo spirito libero e indomito del surrealismo. Chi, del resto, ha saputo anche solo rasentare l’algida precisione di Buñuel nel denunciare le bassezze morali che soggiacciono al pietismo e alla retorica pauperistica? Si torni con la memoria a Las Hurdes (1933), Los olvidados (1950) e soprattutto a Viridiana (1961), dove il discorso sulla miseria, eccezionalmente sferzante, è addirittura accompagnato da una staffilata profanatoria al Cristo degli artisti, il nostro Leonardo da Vinci (quando il tableau vivant ispirato al «Cenacolo» sfuma sarcasticamente nel ricordo delle «Pinturas negras» di Goya).

RIVINCITA
Betriu si prese la sua rivincita sui censori al primo film girato dopo la morte di Franco, La viuda andaluza (1976), liberamente ispirato al romanzo dialogato La lozana andaluza, pubblicato a Venezia nel 1528 da Francisco Delicado. Il regista ne fa una via di mezzo tra Jacques Demy e Berlanga (non a caso, era un film che Rafael Azcona amava molto), spostando l’azione dalla Roma cinquecentesca alla Barcellona della Transizione e travolgendo nella ridanciana querelle tanto la borghesia di Sant Gervasi quanto gli alti vertici del clero, consorzi sociali rimasti da poco orfani dell’alleato franchista. Intorno al corpo nudo di Bárbara Rey, Betriu imbastisce un musical colorato e scalcinatissimo, nel quale la relazione fra i due protagonisti, Lozana e Rampín, scandita dalle frequenti irruzioni di un erotismo solare e liberatorio, è ostacolata dai patti di classe promossi in seno a una società elefantiaca, che fatica a emanciparsi dal fantasma dell’ancien régime. Alla fine sembra imporsi la gratuità dell’amore, ma a trionfare, in realtà, sono i condizionamenti di sempre (Lozana si sposa per interesse con il decrepito sindaco della città, continuando a consolarsi sottobanco con Rampín).

GEMMA TRA LE GEMME

Los fieles sirvientes (1980) è forse la più preziosa delle sue gemme segrete, un film che si rifà esplicitamente a Renoir, Buñuel e Berlanga, e al contempo li trascende. Cinema dell’assurdo, di certo non estraneo al magistero di Beckett. Al centro del racconto, una tribù di domestici schiavizzati dalla propria disarmante avidità, in attesa di un padrone di casa che sembra non dover arrivare mai. Brutti, sporchi (dentro) e cattivi.