La vincitrice del premio Nobel per la chimica del 2018 Frances Arnold ha scelto le austere sale romane dell’Accademia dei Lincei – dove la incontriamo – per riprendere le conferenze pubbliche, dopo un anno e mezzo di sospensione dovuta alla pandemia. Tra Arnold e l’Italia il legame è antico. Risale al 1976, quando a 20 anni interruppe gli studi per trascorrere un anno a Milano dove imparò l’italiano. «Però è meglio che parli in inglese, per il vostro bene» si schermisce lei.

A MILANO AVEVA TROVATO lavoro in una fabbrica di componenti per centrali nucleari, che le permise di acquistare una moto Guzzi del ‘56 con cui viaggiare in Europa prima di tornare negli Usa a completare gli studi. La parentesi milanese non è l’unico elemento curioso, nel curriculum di una futura premio Nobel. Già nella natìa Pittsburgh si era fatta notare perché alternava agli ottimi voti l’irrequietezza di una ragazza disposta a fare l’autostop fino a Washington per manifestare contro la guerra in Vietnam. E a pagarsi gli studi a Princeton facendo la tassista. «Niente di speciale» racconta oggi. «Da noi è assolutamente normale lavorare durante l’università, magari come camerieri». Ma una tassista, all’epoca, guadagnava il triplo di una barista.

NELLE SUE CONFERENZE, Arnold racconta le ricerche che l’hanno portata al massimo riconoscimento scientifico internazionale. La sua specialità si chiama «evoluzione diretta», quasi un ossimoro visto che proprio la teoria dell’evoluzione smontò l’idea che la vita sulla Terra avesse uno scopo prefissato. L’«evoluzione diretta» è il metodo con cui oggi realizziamo nuovi enzimi, proteine presenti in prodotti farmaceutici, detersivi, profumi e altri materiali di uso comune. «Ai miei inizi, non sapevo come progettare un enzima», racconta la scienziata.

«Poi capii che avrei dovuto rivolgermi al miglior ingegnere chimico in circolazione: madre Natura». Il processo ideato da Arnold, infatti, sfrutta in laboratorio i meccanismi della selezione naturale per realizzare, a partire da un enzima, un altro enzima in grado di svolgere una funzione utile. Il metodo consiste nell’introdurre mutazioni casuali nel codice genetico corrispondente all’enzima originale, selezionare quelle che vanno nella direzione giusta e ricominciare il ciclo di miglioramento. In questo modo si possono realizzare enzimi utili senza i danni ambientali della chimica tradizionale. Ad esempio, enzimi in grado di convertire le biomasse di scarto in carburanti ecologici.

OLTRE A COMBATTERE l’inquinamento, questa nuova chimica può aiutarci a combattere la crisi climatica. «Per fermare il cambiamento climatico dobbiamo de-carbonizzare la società, smettere di estrarre combustibili fossili dal terreno e gettarne le scorie nell’atmosfera» spiega Arnold. «Dobbiamo sviluppare tecnologie che permettano di sostituire i combustibili fossili nella produzione di energia e anche nell’industria chimica, perché moltissimi materiali provengono dagli idrocarburi.

Da qui viene l’idea delle “fabbriche microbiche”: i microbi sanno come usare le fonti rinnovabili. Usano come cibo le piante, che prendono l’anidride carbonica dall’atmosfera. Quindi sfruttando i microbi si converte l’anidride carbonica dell’atmosfera in combustibile».

TRA LE AZIENDE nate dalle idee di Arnold, ce n’è una che produce combustibile per aerei a bassa emissione. «Il propellente per gli aerei che abbiamo sviluppato preleva anidride carbonica dall’atmosfera. Ovviamente poi la brucia, ma si tratta di un’economia circolare che non comporta l’estrazione dal terreno di nuova anidride carbonica». Perché la natura è superiore a noi, nel progettare questi processi? «Quasi tutte le reazioni chimiche sfruttate dall’uomo creano numerosi prodotti, uno solo dei quali è la sostanza desiderata. Tutto il resto si trasforma in scorie che dobbiamo gestire. La natura di scorie ne crea pochissime, perché l’evoluzione ha ottimizzato i suoi processi al fine di generare il prodotto desiderato senza produrre sprechi».

L’idea avrebbe potuto essere brevettata, conferendole il monopolio sul suo uso. Una miniera d’oro, che Arnold ha rifiutato rinunciando al brevetto. «Non credo di essere la “proprietaria” dell’idea dell’evoluzione» spiega. «Avrei potuto brevettare qualche singolo metodo, ma ci sono tantissimi modi di utilizzare l’evoluzione e ho pensato che non fosse giusto provare a brevettarla. E credo di aver tratto vantaggio da quella scelta. L’idea si è diffusa, le mie tecnologie sono state utilizzate da tante persone e io ne ho ricevuto un enorme riconoscimento».

L’IMPEGNO CIVILE della scienziata non si è chiuso con il Vietnam. Frances Arnold anche oggi è coinvolta anche sul fronte politico. Il presidente Joe Biden l’ha voluta nel suo consiglio scientifico, che coordina insieme al genetista Eric Lander. Il suo impegno è una reazione ai danni dell’era Trump? «In parte sì, è stata una reazione al disprezzo verso la scienza da parte della precedente amministrazione. L’elezione di un presidente che crede davvero nella scienza mi ha spinto a mettermi in gioco. È la prima volta nella storia che il consigliere scientifico della Casa Bianca, Eric Lander, figura direttamente nel gabinetto del presidente. Sono convinta che la nostra voce sarà ascoltata».

L’OBIETTIVO è ricreare fiducia nei confronti della scienza. Una fiducia che sembra diminuire, proprio in un’era in cui dal progresso tecnologico dipendono fette sempre più importanti della nostra vita, a partire dagli smarphone che portiamo in tasca. Un paradosso?

«La diffidenza della scienza proviene da comunità che non hanno beneficiato dal progresso scientifico. Che lo hanno percepito come una minaccia al loro modo di vita. Penso alle aree rurali, che si sono spopolate, o alle classi disagiate e agli afro-americani in particolare, ignorate dalla scienza e dall’economia. Il modo migliore di creare fiducia è garantire che tutti ricevano una quota del beneficio che deriva dalla scienza. Che è molto più di uno smartphone».