Il processo che è iniziato il 6 maggio scorso è eccezionale. Per la prima volta in Francia, una grande impresa e i suoi principali dirigenti sono giudicati per mobbing . La società France Télécom (diventata Orange nel 2013), il presidente, il direttore operativo, il direttore della risorse umane, oltre a quattro altri dirigenti, sono accusati di aver sistematizzato il mobbing, di averlo trasformato in una politica imprenditoriale. Devono rispondere penalmente per questo comportamento nei confronti di 39 vittime, 19 delle quali si sono suicidate.

Sul fronte opposto, un centinaio di persone si sono costituite parte civile – tra queste alcune famiglie di dipendenti che si sono suicidati o hanno tentato di farlo, alcune delle organizzazioni sindacali, il Comitato di igiene e sicurezza che monitora le condizioni di lavoro (Chsct) e le associazioni di vittime di incidenti – con al seguito una ventina di avvocati che li difendono, cercheranno di dimostrare che la multinazionale delle telecomunicazioni e i suoi dirigenti hanno messo in atto, durante il periodo di tempo che va dal 2007 al 2010, «una politica di impresa che mirava a destabilizzare dipendenti e funzionari e creare un clima professionale ansiogeno».

Il fascicolo giudiziario è molto pesante, frutto di quattro anni di istruzione e di una quarantina di perquisizioni. Comporta 3.753 documenti e circa 700 pagine. Secondo la requisitoria del procuratore della Repubblica, i «comportamenti ripetuti» dell’amministratore delegato Didier Lombard, del direttore delle risorse umane Olivier Barbelot e del direttore operativo Louis-Pierre Wenes, hanno avuto come conseguenza «un degrado delle condizioni di lavoro dei dipendenti», «suscettibile di ledere i loro diritti e la loro dignità, di alterare la salute fisica o mentale o di compromettere il loro avvenire professionale».

I capi d’accusa sono schiaccianti, alcune dichiarazioni sono rimaste nella memoria. Per esempio, l’affermazione perentoria dell’amministratore delegato Lombard di fronte ai quadri dirigenti a proposito dei metodi «dirigisti»: i 22 mila licenziamenti previsti «li realizzerò in un modo o nell’altro, dalla porta o dalla finestra». Oppure la sua reazione, dopo un incontro con il ministro del Lavoro: «Bisogna mettere fine a questa moda dei suicidi, che, evidentemente, è un shock per tutti». Di fronte a questo fascicolo, la difesa è in difficoltà. Alterna alla minimizzazione degli atti, la negazione e l’arroganza.

Anche le domande della pubblica accusa sui bonus ricevuti dai quadri dirigenti insistono su pratiche brutali: i documenti mostrano che i dirigenti venivano giudicati sui risultati in materia di riduzione dei dipendenti e i bonus erano proporzionali a quanti più “esuberi” riuscivano a licenziare o a far dimettere; non è questa l’illustrazione della volontà di fare pressione sui subordinati? «No», rispondono gli accusati, per loro si tratta di previsioni di allontanamenti «naturali» tra i dipendenti.

E le mail contenenti offerte di lavoro all’esterno della società, che arrivavano ogni inizio di settimana, poi varie volte a settimana, infine quotidianamente? Risposta: non si trattava di pressioni, i dipendenti non aspettavano altro che avere informazioni sulle opportunità di impiego. Alla domanda sugli obiettivi prioritari, indicati nei documenti, come «22 mila posti di lavoro in meno, mirati prioritariamente ai dipendenti low performers» viene risposto che «no, le valutazioni a cui venivano sottoposti i dipendenti qui definiti low performers avevano il solo obiettivo di permettere loro di trovare un posto più adatto all’espressione del loro talento all’interno dell’impresa».

Quando il tribunale evoca le vessazioni subite da numerosi dipendenti, il fatto che al ritorno da un permesso per malattia alcuni abbiano constatato che il loro posto di lavoro era stato spostato o che per loro non c’era in effetti più nessun posto, oppure che rientrando il lavoratore veniva demansionato, anche da un posto qualificato a uno di operatore in un call center, con decisione presa dall’alto, a proposito di tutto ciò i grandi manager presenti al processo hanno declinato ogni responsabilità rispetto a pratiche che «non condividono».

In sostanza nessuno dei quadri dirigenti ammette di aver messo in atto e neppure di aver attivamente partecipato a un’ipotetica strategia di diminuzione della forza lavoro, potenzialmente ricompensata da una retribuzione nella parte variabile dello stipendio. I dirigenti negano che quello che è avvenuto sia frutto di un’organizzazione voluta e strutturata. Didier Lombard, presidente e Ceo di France Télécom tra febbraio 2005 e marzo 2010, riassume quello che tutti pensano, negando in tribunale che gli ordini siano venuti dall’alto. Per lui c’è stata semplicemente una disfunzione nella catena di comando, su chi avrebbe dovuto prendere le decisioni e la colpa di quanto accaduto sarebbe quindi da attribuire a impiegati troppo zelanti che hanno sbagliato nel realizzare la loro missione.

L’ex amministratore delegato, del resto, non sembra nemmeno capire la ragione che lo ha portato sul banco degli accusati. Secondo lui la trasformazione dell’impresa è stata un successo. Ma questo successo è stato «distrutto» da quello che è accaduto nell’estate del 2009 (maggiore frequenza di suicidi, stato emotivo sempre più forte tra i dipendenti), cosa che Lombard descrive come un «fenomeno mediatico».
Didier Lombard ha chiamato come testimone a suo favore, l’ex direttore dell’Fmi, Jacques de la Rosière, il quale ha dichiarato che a suo avviso l’amministratore delegato «ha salvato un’impresa sull’orlo del fallimento». «La sua visione ha salvato la società e in seguito è stata imitata all’estero (…) tanto di cappello!», ha detto a sua discolpa. E manifestamente ha spiegato che non ammette che questo merito non gli venga riconosciuto.

Gli accusati rischiano poco. Se la loro responsabilità viene riconosciuta, possono essere condannati a un anno di carcere e 15 mila euro di multa. Ma l’importanza di questo processo va al di là della sorte dei dirigenti della società. Difatti le violenze morali inflitte ai lavoratori si estendono ad altri settori, in altre imprese. I ricorsi al suicidio esistono in altre professioni. Succede ad esempio nella polizia, dove più di trenta poliziotti si sono uccisi dall’inizio dell’anno, sovente con l’arma di servizio, a volte sul luogo di lavoro, in un burnout che non è tipico della polizia francese ma del mestiere stesso in tutto il mondo, anche se con incidenza diversa a seconda delle condizioni di lavoro e della prevenzione.

Succede anche alla Sncf (ferrovie), dove i lavoratori sono entrati in sciopero martedì 4 giugno per denunciare le conseguenze della riforma ferroviaria. Questa riforma, che, dovrebbe entrare in vigore tra poco più di sei mesi, prevede che gli enti pubblici che costituiscono la Sncf vengano trasformati in società anonime, che sia messa fine all’assunzione dei ferrovieri con il vecchio statuto, il tutto per arrivare all’apertura alla concorrenza con i privati nel settore ferroviario. Secondo i sindacati esiste una vera «violenza manageriale», con posti di lavoro che vengono eliminati e 5mila persone in attesa di cambiare mansione. Alcuni sindacati stabiliscono un legame tra questa «violenza» e l’importante numero di suicidi (50 in un anno) che si è verificato, sul modello di quanto è successo a France Télécom.

Per rispondere alla situazione, la direzione della società ferroviaria ha voluto mettere in atto un «laboratorio della trasformazione sociale». Questo organismo avrà il compito di fare un’analisi critica della politica della Sncf. E tra i quattro membri indipendenti che compongono questo comitato-laboratorio, c’è anche l’ex direttore delle risorse umane di Orange, che ha cercato di riportare la calma dopo la crisi dei suicidi tra i dipendenti della società telefonica.