Franca Valeri se ne è andata, domenica, nella sua casa romana, giusto una decina di giorni dopo aver festeggiato il suo centesimo compleanno. E sarebbe bello se davvero fosse riuscita a vedere e gradire il tributo che l’intera Italia ha reso alla sua arte. Una storia artistica complessa e multiforme, che ogni volta che si parla di lei rende difficile da dove iniziare. Ma se un elemento resta sempre principe tra gli altri, è forse proprio la scrittura, anche se non abbastanza sottolineato ed evidente per i molti testimonial (davvero compositi e spesso inadeguati) che si sono succeduti nelle trasmissioni tv a lei dedicate in questi giorni. La sua resta ora la scrittura di una grande autrice, che ha fatto le migliori letture fin da bambina. Nella buona famiglia borghese di Milano, dove però il padre lavorava sodo e non di rendita, e nello stesso tempo venne costretto a dissimulare la propria origine ebraica per poter continuare a lavorare, fino alla clandestinità e all’espatrio. E Franca, ragazza, passava intanto ai raggi X quel mondo che le toccava osservare, con i difetti e le passioni, le illusioni e le frustrazioni che il fascismo imponeva e l’esser borghese conferiva.

DA QUELLA OSSERVAZIONE approfondita e quasi scientifica, nacque forse la sua risposta: essere attrice, prendere l’iniziativa in prima persona per farsi specchio, deformante e insieme chirurgicamente consapevole, affettuoso ma non per questo acritico, di quel mondo che le girava intorno, e a cui dal palcoscenico poteva fornire una sorta di specchio più fedele di una radiografia. Ha fatto tanti ruoli «la Franca», di ogni genere e spessore, ma sempre «autorali». Anche quando erano scritti originariamente da altri (magari maschi), ma che la «grammatica» della sua interpretazione rendeva sempre e ineluttabilmente «suoi». Sul palcoscenico creava dei personaggi in prima persona, e dotati di tali caratteristiche e di tali costanti da diventare assolutamente autonomi, e non deperibili. Destinati a farci ridere e «preoccupare» ancora oggi, dopo decine di anni e centinaia di altri personaggi conosciuti.
La sua mimica, le sue voci, i suoi gesti, le svampitezze e gli affondi, il sorriso frenato in una smorfia e la vaghezza che pure punge come uno spillo, sono davvero frutto di una scrittura, antinaturalista quanto implacabilmente reale. Una scrittura letta e maturata attraverso ogni particolare del suo viso, della voce, della postura. Un patrimonio espressivo che l’ha fatta riconoscere come la più grande «comica» femminile dello spettacolo italiano (e a lei si sono certo ispirate e nutrite molte comiche e comichette degli anni recenti). Ma attraverso quei corpi e quei personaggi è lei ad aver creato le vere maschere del 900, di livello e spessore pari oggi a quelle della commedia dell’arte. Figure, le sue, che pure si son trovate a cimentarsi con neocapitalismo e facile modernità consumista, con nuovi problemi e antichi poteri (maschili in particolare).

LA SUA GRANDEZZA di scrittrice, anche in senso strettamente letterario, del resto è documentata dai molti suoi testi: quelli teatrali innanzitutto, molti editi singolarmente da Einaudi (compresa l’irresistibile autobiografia Bugiarda, no reticente), e quelli di maggior impegno e corpo, riuniti e ripubblicati ora da La tartaruga/La nave di Teseo in Tutte le commedie. Testi meravigliosi, non scontati e molto personali nella scrittura e nel mondo di rapporti nuovi che delineano. E che la immettono in quel circuito fondamentale dei Gran Lombardi del 900, da Gadda ad Arbasino (il quale non a caso amava spesso citarla). Ma Franca Valeri è stata scrittrice anche di ogni sketch che in televisione, e prima alla radio (e perfino in certi Caroselli pubblicitari) l’ha resa popolare e amatissima dal pubblico più largo. «Interclassista», nel target, puntuta e affilata nel colpire nefandezze e ingiustizie subite dalle sue donne.

PER NON PARLARE del cinema, degli innumerevoli film in cui è apparsa (nella memoria paiono centinaia). Lì l’attrice diventava presenza magnetica, i suoi sguardi, le sue smorfie, il suo farsi inadeguata rispetto al modello pin up dominante, dava il senso profondo di ogni film. Da quello forse più noto ed esplicito (anche perché si specchiava niente meno che con Sofia Loren) che è Il segno di Venere di Dino Risi, che però lei firmò anche come sceneggiatrice. Irresistibile, perché anche lì era il suo corpo, i suoi vestiti dimessi (lei super aficionada di Roberto Capucci, con solo qualche saltuario tradimento con il suo amico Coltellacci), occhi e volto eloquenti e pause da tenere il fiato, acchiappava la macchina da presa più della Loren, giocandosela alla pari con il mito nascente di Alberto Sordi. Con lui avrebbe fatto altri film fondamentali di quella metà degli anni 50: il crudele e irresistibile Un eroe dei nostri tempi di Monicelli, e ancora Il vedovo sempre di Risi. Un cammino dei due artisti parallelo sullo schermo, forse reciprocamente pedagogico. Anche se più decisamente coerenti al personaggio Valeri restano Leoni al sole e Parigi o cara. Entrambi sceneggiati dalla stessa attrice (del secondo anche protagonista principale), ed entrambi diretti da Vittorio Caprioli, che è stato suo marito nonché, assieme a Alberto Bonucci, protagonista con lei dei Gobbi, il trio di cabaret che alla vigilia degli anni 50 segnò per loro il debutto assoluto, per altro a Parigi (dove tra gli spettatori avevano Genet, Sartre e Beauvoir…).

E QUASI a confermare l’unitarietà del mondo Valeri, non sarà forse stato un caso che il secondo compagno della sua vita sia stato un musicista, il direttore d’orchestra Maurizio Rinaldi, perché lei, che aveva studiato musica e fin da bambina aveva frequentato la Scala, tra le sue grandi passioni aveva la musica. Cosa che l’ha spinta non solo a firmare la regia di diverse opere, ma a creare e finanziare, battendosi perché quell’esperienza continuasse, un rinomato corso per nuove voci liriche. Quasi una forma ulteriore di scrittura, anche se attraverso suoni e voci di altri.
Una grandezza, quella sua scrittura dalle mille forme, di cui Franca Valeri era certo consapevole e fiera, ma che mimetizzava in un fair play di rara eleganza e intelligenza. A leggere i complimenti e i riconoscimenti che tutti oggi le dedicano, sarebbe capace, indicando se stessa sullo schermo, di rispondere come lei commentava, con occhio desolato, nel Segno di Venere, un barzelletta pasticciata che Sordi tentava di raccontare: «Ma l’ha capita lei?».