Quanto tempo è passato dall’ultima volta che ho visto Franca Rame. E già questo è un dolore, il tempo che passa. Mezza Milano la conosce, ognuno ha qualcosa da raccontare su di lei. E su di sé. Solo adesso che non c’è più i milanesi sono costretti a riconoscere fino in fondo la realtà ricreandosela col pensiero: cosa ha significato Franca Rame. La realtà c’era anche prima, come sempre, ma era nascosta nella vita di ogni giorno, poi un’altra morte, una di quelle rare che non possono restare fatto privato, riporta a galla un ricordo. È più di una vita che se n’è andata, è la memoria collettiva. Succede con le poche persone che riescono ad agire sui vivi anche quando scompaiono, sono morti non inutili. Con Franca Rame è così.

In queste ore Milano celebra il culto del rimpianto non solo di chi se n’è andato ma anche delle cose che ha amato. La passione per la giustizia, la testa calda, il desiderio di battersi per difendere gli ultimi, il suo essere visceralmente di sinistra (sì), l’allegria, la disponibilità, e anche una certa imbarazzante bellezza. Tutti dicono che era una donna bellissima, di una bellezza che non ha bisogno di tante spiegazioni. È vero, lei lo sapeva.
Per tutto questo, con il cuore gonfio per cosa siamo stati e per cosa siamo diventati, ieri migliaia di persone si sono messe in fila davanti al Piccolo Teatro di via Rovello, dove aveva debuttato. Dove aveva conosciuto Dario Fo. Una delle coppie più coppie del mondo.

Per molti quello di ieri era anche il primo saluto così da vicino, con la bara rivestita di rosso distesa su un tappeto di fiori, un quadro con delle barche rosse profilate in una sagoma femminile, disegni di bambini, e anche due copie del manifesto con il titolo più naturale, «Bella Ciao» (per la cronaca, anche una del Fatto). Poi due fogli scritti a mano, in poche righe interpretano il sentimento di molte donne, «Grazie per aver lottato per tutte noi» e «Come donna dico basta». Fuori, in fila, altri «basta» ma meno rabbiosi, basta incontrarsi solo in queste occasioni… sono amici, amiche, comunque contenti di ritrovarsi anche se la circostanza invita a riflettere su un vuoto difficile da colmare, e guardarsi attorno non mette allegria: «Quando moriremo noi non se ne accorgerà nessuno», Franca Rame aveva 83 anni e qui in fila potrebbero essere tutti suoi figli, o nipoti. Fanno la fila anche i vip, gli unici cui si chiede di dare voce a un ricordo. Ognuno dà sfogo alla propria solitudine o testimonianza. Cominciano ad arrivare donne in rosso e qualcuna intona la canzone che Franca Rame avrebbe voluto ascoltare ancora una volta, la canzone delle partigiane. C’è chi se la ricorda per aver giocato una partita a carte, «era una grande giocatrice», e chi non c’era se la immagina con la sigaretta in bocca.

Il «suo» uomo, una roccia, è lì dentro al teatro, seduto come su un trono, stringe mani, scambia abbracci: «Non continuate a stringere, la mano mi si sta sfasciando, ancora una mezz’ora e mi porteranno all’obitorio». Al suo fianco, il figlio Jacopo e la nipote. Il solito Dario Fo, capace di scherzare per il suo pubblico intristito (una cosa mai vista), una forza tragica, per una volta non uomo politico e genio spiazzante ma uomo soltanto: «Non è vero che essere tanti a soffrire è un conforto». Franca oggi è la «sua» donna. «A me ne basterebbe una», risponde a chi gli sussurra che di donne così ce ne vorrebbero tante. Oggi, al Teatro Strehler (ore 11), gli toccherà la parte più difficile: «La mia non sarà un’orazione funebre ma un commiato».

Il Piccolo Teatro, nascosto com’è, rappresenta la grande storia di Milano, la scena di una tragedia ma anche di spettacoli memorabili. C’è una targa di marmo, perché settanta anni fa «qui hanno subito torture e trovato la morte centinaia di combattenti della libertà prigionieri dei fascisti», ma oggi ci sono anche le locandine degli spettacoli di Dario Fo e Franca Rame. Perdersi in quelle grafiche, prima di entrare nella camera ardente, è la chiave per ritrovare storie più piccole ma ugualmente intense, perché Franca Rame ha fatto quello che ha fatto soprattutto salendo (e scendendo) da un palco. La prima volta che l’hai vista? «Tredicenne piuttosto disinteressata – ricorda Alice, nemmeno trent’anni – avevo ceduto alle insistenze dei miei genitori. Questa sera si va a teatro, al Leoncavallo. Dario e la Franca sono vecchi, mi avevano detto, forse non avrai molte altre occasioni di vederli. Quella sera ho scoperto Ruzante, i centri sociali e una Milano che, in piena ribellione contro due ragionevoli genitori di sinistra, ostinatamente ignoravo. So solo che si alternarono sul palco: lui per primo, strabordante, lei dopo, quasi laconica, come se si prendesse il tempo di scegliere ogni parola in mezzo al silenzio assoluto».

E tu? Con l’occhio rimuginante sul cartellone di Sesso? Grazie tanto per gradire. Marco, nemmeno cinquantenne, torna col ricordo alla Palazzina Liberty, luogo mitico, bello come l’inferno per tutti coloro che non hanno mai creduto al paradiso. Era la casa di Dario Fo e Franca Rame, fermento allo stato puro nella prima metà degli anni Settanta, l’utopia realizzata. Tutte le famiglie minimamente democratiche ci portavano la prole. Un rito di iniziazione. Marco aveva nove anni, quella è stata la sua prima assoluta. «Ero seduto nelle prime file, mi aveva portato mia zia, una pazza di sinistra – ricorda – e c’era un casino incredibile. Franca Rame mi sembrava un gigante, stava recitando Tutta casa letto e chiesa e indossava una vestaglia trasparente. Sotto non aveva niente, non avevo mai visto prima una donna così grande e così da vicino, non capivo una parola, la guardavo e mi batteva il cuore. Una serata indimenticabile, adesso voglio andare allo Strehler per l’ultima volta, metterò qualcosa di rosso».