Tra il 1998 e il 2001 lo storico dell’architettura Kenneth Frampton (n. 1930) tenne una serie di lezioni all’Accademia di Architettura di Mendrisio con lo scopo di dimostrare quanto disomogenea fosse stata la modernità in architettura. Raccolte nel volume dal titolo “L’altro Movimento Moderno” (Mendrisio Accademy Press-Silvana Editoriale, traduzione di Maddalena Ferrara, pp. 346, euro 42,00), le sue lezioni sono ora disponibili al lettore a cura di Ludovica Molo. Ognuna forma un capitolo che illustra la carriera e un’opera di un architetto fra quelli scelti dallo storico inglese per la loro collocazione divergente rispetto ai rigidi stilemi della modernità architettonica, ovvero dal linguaggio prodotto negli anni venti dalla tabula rasa compiuta nei confronti di tutte le precedenti esperienze per affermare «edifici purificati asettici, bianchi e sani» (Werner Oechslin). Ci si imbatte in personalità conosciute e largamente studiate come Erich Mendelsohn o Max Bill, Sigurd Lewerentz o Arne Jacobsen, altre meno come il danese Vilhelm Lauritzen, progettista dell’aeroporto di Kastrup (Copenhagen), o il ceco Jaromir Krejcar, autore del Padiglione cecoslovacco all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1936, la cui terrazza a sbalzo, con sopra affacciati i visitatori, è l’immagine scelta per la copertina.
L’intento di Frampton non è farci scoprire qualcosa o qualcuno a noi ignoto o dimenticato dalla storiografia, piuttosto mettere in risalto come una serie di personalità, tra l’Europa e gli Stati Uniti, abbiano saputo «costruire sulla base di valori propri», sperimentando tecnologie, soluzioni originali ai bisogni sociali di una comunità. Due i criteri che hanno guidato la sua scelta: la «marginalità» dei protagonisti, posti «a lato della linea principale generalmente rappresentata dal lavoro di maestri come Le Corbusier e Mies van der Rohe», e il carattere «tipologicamente programmatico» della loro opera, che sottende per ognuno avere individuato temi «inseparabili dalla natura progressista della modernizzazione». È così che nell’ambito dell’abitazione individuale, dell’architettura per l’industria, la scuola o il tempo libero, la scelta sia caduta ad esempio, rispettivamente, sulla Casa E1027 a Roquebrune-Cap Martin, capolavoro di Eileen Gray (con Jean Badovici); la Maison de Verre a Parigi di Pierre Chareau; lo Stabilimento farmaceutico Boots a Beeston di Evan Owen Williams; la Scuola all’aria aperta ad Amsterdam di Johannes Duiker o le piscine Freibad Allenmoos a Zurigo di Max Ernst Haefeli e Werner Max Moser. Tra le diciotto opere scelte, tutte concentrate in Europa ad eccezione delle californiane Casa in King Road di Rudolf M. Schindler e Casa Kaufmann di Richard Neutra e del Golf Club di Tokyo di Antonin Raymond, Frampton ha voluto in particolare evidenziare, per ognuna, la «sottile declinazione in risposta al contesto» nel quale queste architetture sono collocate. D’altronde lo storico inglese resta fedele al suo concetto di «regionalismo critico», ossia l’importanza che per lui ha sempre rivestito, nella configurazione dell’architettura, il paesaggio e l’ambiente: un «approccio alternativo» alla tendenza verso l’«astrazione universale» che qualifica l’architettura degli anni venti nel duplice combinato di formalismo e internazionalismo.
Come riconosce lo stesso Frampton, la tesi che il Movimento Moderno non sia stato un blocco monolitico è un’evidente presa d’atto che lui fa risalire agli anni dell’immediato dopoguerra in occasione, nel 1951, di uno dei «colloqui» del Darmstädter Gespräch dal titolo Mensch und Raum (L’uomo e lo spazio), dedicato al tema della ricostruzione posbellica. È lì che Heidegger espone la sua critica al determinismo della tecnica con il suo intervento «Costruire, abitare, pensare», seguito sulle stesse posizioni da Rudolf Schwarz, mentre in parallelo Hans Scharoun espone il suo progetto per le scuole di Darmstadt dall’impianto risolutamente organico. Pochi anni dopo, nel 1957, la critica dell’«altra» modernità troverà nuovi argomenti in Alvar Aalto per la sua «eccezionale capacità di portare una qualità umana e dolcezza alla tecnologia architettonica moderna», come motiverà il premio del Royal Institute of British Architects (RIBA). L’umanesimo aaltiano, insieme al New Brutalism dei membri britannici del Team 10 (Alison e Peter Smithson), contribuiranno a consolidare l’interesse per una «modernità alternativa», mentre il saggio di Colin St. John Wilson Other Tradition of Modern Architetcture, pubblicato nel 1995 e purtroppo da noi mai tradotto, ne argomenterà polemicamente le ragioni.
Frampton deve molto al lavoro di Wilson, in particolare la tesi, riportata nel sottotitolo del saggio citato, sul carattere «incompiuto» del progetto moderno. Tesi ripresa da Jürgen Habermans quale risposta alle teorie del postmoderno, e che considera gli ideali della modernità per nulla falliti ma depotenziati nella società attuale dei suoi valori emancipativi da una modernizzazione orientata «unilateralmente nel metro della razionalità economica e amministrativa».
La sequenza cronologica delle architetture selezionate da Frampton ha inizio nei primi anni venti per terminare nei Sessanta. Nell’arco di quarant’anni, egli ci spiega, di volta in volta si è manifestato il «modo progressista» di concepire il progetto architettonico. Un progetto fondato sul rapporto dialettico con la natura (di qui l’importanza delle stratificazioni iscritte nei luoghi), sul carattere tettonico che conforma i materiali, la loro lavorazione e relazione con le forze agenti, e, infine, sui molteplici significati che assume l’«entropia tecnologica» nei confronti della percezione tattile e non solo visiva dell’architettura. D’altronde, come scrisse Ignasi de Solà-Morales, è stato il confronto con l’«universo tecnico e metropolitano» a determinare l’esperienza della modernità. Sono questi gli stessi elementi che Frampton rintraccia nelle pionieristiche raccolte di Alfred Roth (Die neue Architektur, 1940), di Alberto Sartoris (Encyclopedie de l’architecture nouvelle, 1948) e di Max Bill (Moderne Schweizer Architektur 1925-’45, 1949): storie alle quali fa riferimento poiché premianti sempre «l’invenzione tipologica, la diversità espressiva e la forza modernizzatrice», in sintesi il loro carattere programmatico e architettonico.
Purtroppo molte figure, come riconosce lo stesso Frampton, avrebbero meritato di essere comprese nella raccolta: dagli svizzeri-tedeschi Otto Salvisberg e Karl Engeder al ticinese Rino Tami, dagli scandinavi Arne Korsmo, Erik Bryggmann e Sven Markelius ai greci Dimitri Pikionis e Aris Konstantinidis. Anche gli italiani avrebbero potuto trovare un loro posto. Frampton riconosce che alcuni nostri modernisti della fine degli anni quaranta fuoriescono dall’ortodossia modernista. A Roma è un valido esempio la Casa Girasole di Luigi Moretti, «minimalista ma aggraziata», oppure la monumentale copertura dell’atrio della Stazione Termini di Eugenio Montuori e Annibale Vitellozzi: una «eccezionale composizione» che rappresenta in modo significativo l’«altra modernità».
Tuttavia, pur nel limite degli episodi esposti, il saggio di Frampton deve essere letto come un contributo alla storia del Modern Movement nonostante il difficile rapporto che le sue teorie hanno con essa intrattenuto. È, infatti, con la storia, pur «indesiderata», che l’architettura moderna deve essere misurata affinché possano essere messi in luce gli equivoci e le deformazioni nascosti dietro l’ideale di uno stile propagandato dal Bauhaus, ma sopravvissuto fino a oggi, che intende la forma architettonica sempre atemporale e ubiquitaria. In questa direzione le ricerche sul Moderno architettonico potranno avere in futuro ancora importanti sviluppi.