Rosarno nel nostro immaginario «televisivo» (che troppo spesso coincide con quello collettivo) evoca chi ricorda – perché altra caratteristica è la sua rapidissima consumazione – un posto indistinto del sud Italia, laddove un giorno i migranti si sono ribellati a soprusi, razzismo e nuova schiavitù. Le cose poi sono sempre più sfumate nella realtà vissuta che nell’effetto mediatizzato, ma tornare a Rosarno, e in un sud italiano anch’esso ridotto a luoghi comuni e formule semplificanti (ultima la Gomorra di Saviano che solo un regista come Matteo Garrone ha saputo trasformare in immaginario di realtà nel suo film), comportava un rischio enorme e una grossa fatica.

Rosarno, il primo film di Greta de Lazzaris, ci dice che siamo nella cittadina calabrese sim da titolo. E le prime inquadrature ci portano «a distanza» proprio davanti agli africani che lì vivono, accampati in molti casi negli spazi abbandonati, quelli di speculazione e soprusi edilizi, e lavorano come manodopera stagionale nelle raccolte. Piano piano la regista accorcia le distanze, e arriva con la macchina da presa davanti e in mezzo a quella realtà. Tra le strade di uno dei tanti paesi italiani lasciati a metà, quel paesaggio di cemento armato che ha divorato campagna e natura. Di strutture abbandonate, e corrose dal tempo e dall’incuria. Di paesaggi umani e fisici in cui alla fine si è quasi costretti a trovare un punto comune necessario a sopravvivere. E intreccia storie che sono anche belle, e umanissime, come quella del giovane pastore che ha adottato un ragazzino per farlo andare ascuola e vivere come gli altri bambini, e lo racconta senza retorica, con semplicità, guardando le sue pecore, e si rivolge alla cineasta dicendole: magari vengo a Roma e lavoriamo e stiamo meglio.

O quella bimba piccolina che davanti agli abiti donati ai migranti dalle associazioni riempie i sacchi con un sorriso furbetto, come se non potesse smettere e sono più grandi di lei. O invece quando un gruppo di africani litiga per i materassi, e le donne rimangono senza, spinte al lato da maschi prepotenti, con la mano di qualcuno che a un certo punto copre la telecamera.

Greta de Lazzaris, francese, di Marsiglia, arrivata in Italia ormai molti anni fa, è cresciuta sui set di Matteo Garrone, Marco Onorato il direttore della fotografia che ha realizzato tutti i film del regista romano è stato il suo maestro. Queste immagini le ha girate nel 2004, prima che a Rosarno esplodesse la rivolta, e le ha riprese ora, per una produzione indipendente. Eppure sono attualissime, forse proprio perché invece della cronaca cercano i frammenti del vissuto, quella cifra ambigua di cui è fatta la realtà. Lei procede per epifanie, anche violente, a cui si accosta con pudore, e con riservatezza. La lotta dei poveri tra di loro, i passi sconsolati tra le macerie di un’incompiuta che doveva essere l’ospedale tra cui si aggirano con beffarda rassegnazione i medici. Il lavoro negli aranceti e pochissimi soldi, la fatica di cittadini e associazioni per fare fronte al bisogno.

Rosarno diviene un lampo che illumina il nostri tempo, le contraddizioni che attraversano l’Europa delle migrazioni e dei razzismi delle economie basate sui corpi a cui si nega, di nuovo, ogni diritto di esistere. Ma anche una sorta di chiave d’accesso a quel disagio italiano stratificato negli anni da una continua speculazione politica, economica, sociale, culturale. Quel terreno impossibile di un sud svuotato il cui orizzonte ha rimodulato le stesse dinamiche arcaiche dalle quali sono fuggiti altri migranti su questi nuovi senza diritto. Lo sguardo della cineasta ce lo mostra però senza retorica della denuncia e senza giudizi. Sta a noi costruire relazioni, raccordi, riferimenti. È una realtà di cui ci parla Rosarno, che ci appartiene, dove si vede il mondo e la storia d’Italia ancora poco scritta, una materia che de Lazzaris interroga nei suoi significati e soprattutto nel suo essere cinema. Cosa che è un dono raro.