Judith Butler racconta nella sua seconda prefazione a Gender Trouble che, al momento di inviare il suo manoscritto all’editore Routledge, tutto si sarebbe aspettata tranne l’enorme attenzione che il libro avrebbe attratto. Un’attenzione tale da cambiare il volto della teoria femminista contemporanea, al punto che molte teoriche non esitano a parlare di una «terza ondata» femminista. In Italia il libro è arrivato con ben quattordici anni di ritardo e con il titolo piuttosto dubbio di Scambi di genere, che rende poco l’idea della costitutiva fragilità di ogni identità di genere e dell’incoerenza sempre in agguato in ogni citazione e ripetizione della norma a cui ogni identità è riconducibile. In Scambi di genere e Corpi che contano di Judith Butler, generalmente considerati come due dei testi fondativi e più influenti della teoria queer, è possibile ravvisare alcuni dei trend teorici ed epistemologici che avrebbero caratterizzato il futuro sviluppo della teoria.

In primo luogo la svolta linguistica operata da Butler, nella sua interpretazione della nozione di «performativo» elaborata da John Austin in Come fare cose con le parole. La nozione di «performativo» viene però estrapolata dal contesto linguistico di Austin e applicata da Butler, e da buona parte degli altri teorici queer, come un dispositivo interpretativo di una vasta gamma di pratiche sociali e discorsive. Si tratta di quelle pratiche che all’interno di una ««matrice eteronormativa» costituiscono il soggetto con la sua identità di genere, celando al tempo stesso la natura costruita sia di quel soggetto che della sua identità. Da questo approccio discendono due ulteriori aspetti largamente presenti nella letteratura queer: quella che il filosofo Steven Best ha definito come «la dittatura del frammento» e la critica dell’essenzialismo e del fondazionalismo (da questo punto di vista, le critiche di Butler, Jacques Lacan, Julia Kristeva e Luce Irigaray hanno fatto scuola).

Un riduzionismo da superare

I lavori teorici queer degli inizi degli anni Novanta sono stati caratterizzati anche da una forte critica all’opera di Marx, sostituito generalmente con Foucault. All’ansia di totalità e all’ortodossia riduzionista e determinista attribuita al marxismo viene, infatti, preferita l’attenzione foucaultiana verso la microfisica del potere, i regimi discorsivi e la radicale contigenza del rapporto tra pratiche discorsive e non discorsive. Così, ad esempio, diversi dei saggi contenuti nella seminale raccolta Fear of a Queer Planet, curata da Michael Warner e apparsa nel 1993, criticavano esplicitamente il marxismo per la sua cecità rispetto alla sessualità e alla politica sessuale. E nel dicembre del 1996, Judith Butler lanciava una provocazione alla platea – tendenzialmente marxista – di un convegno organizzato dalla rivista Rethinking Marxism, accusando il «marxismo ortodosso» di separare in maniera meccanicistica il culturale dall’economico, di stabilire una gerarchia netta tra oppressione e sfruttamento, e di liquidare come «meramente culturali» i nuovi movimenti centrati sulla sessualità. Questo intervento è stato pubblicato due anni dopo, con il titolo per l’appunto di «Merely Cultural», sulle pagine della New Left Review, che ha ospitato anche la risposta di Nancy Fraser (Misrecognition and Capitalism: A Response to Judith Butler).
Con queste premesse, le prospettive di un riavvicinamento tra teoria queer e marxismo sembravano tutt’altro che rosee. E tuttavia, nell’ultimo decennio ha iniziato a farsi strada una nuova tendenza a confrontarsi nuovamente con Marx al di là di facili e stereotipate caricature e a prendere in considerazione le dinamiche capitalistiche e la loro relazione con la formazione delle identità di genere. Uno degli aspetti lampanti e per certi versi sconcertanti del lavoro di Butler sul genere, infatti, è l’assenza di una problematizzazione del rapporto tra le dinamiche della valorizzazione capitalista e la sua diagnosi del genere come performativo e come indissolubilmente connesso a una matrice eteronormativa. Questo rapporto viene, invece, tematizzato in una serie di pubblicazioni che hanno provato a portare avanti sia una critica antieteronormativa del capitale sia una critica della politica mainstream gay e lesbica, basata su una rivendicazione di diritti formali articolati all’interno di un orizzonte neoliberale: si vedano, ad esempio, i lavori di Alan Sears, Lisa Duggan, Arnaldo Cruz-Malavé e Martin F. Manalasan.

Tra i lavori che in maniera sistematica hanno provato a integrare una prospettiva queer con una metodologia marxista spiccano il volume di Rosemary Hennessy Profit and Pleasure. Sexual Identities in Late Capitalism (Routledge) e il più recente volume di Kevin Floyd, The Reification of Desire. Toward a Queer Marxism (University of Minnesota Press). La traiettoria intellettuale di Rosemary Hennessy è particolarmente interessante. Nel suo primo libro, Materialist Feminism and the Politics of Discourse (Routledge 1992), Hennessy aveva portato avanti un progetto di integrazione tra marxismo, femminismo materialista e poststrutturalismo, centrato sull’idea della reciproca determinazione degli aspetti economici, culturali e politici della vita sociale. Un progetto, questo, abbandonato con il secondo libro, Profit and Pleasure, nella cui introduzione Hennessy confessa d’essere giunta a realizzare che il suo lavoro precedente aveva contribuito al processo di elisione sistematica dell’analisi del sistema di classe capitalistico dai discorsi sul genere e la sessualità all’interno del mondo universitario americano.

Reazioni identitarie

Profit and Pleasure propone, dunque, un approccio articolato alla questione del rapporto tra relazioni di produzione e sessualità, e più in generale tra «i discorsi attraverso i quali rendiamo il mondo intelligibile e le strutture di accumulazione e lavoro». Si tratta di un approccio che liquida in maniera definitiva il modello struttura-sovrastruttura proprio del «marxismo volgare», contro il quale privilegia, da un lato, una concezione del capitalismo come organizzazione di relazioni umane, o di relazioni tra «individui vivi», dall’altro, nozioni quali quella di «esperienza» elaborata dallo storico inglese Edward P. Thompson. In questa prospettiva, e facendo anche un uso critico del concetto di sovradeterminazione, Hennessy analizza la costruzione di identità sessuali e la loro connessione con le identità di genere alla luce del processo di diffusione della produzione di merci in Europa e negli Stati Uniti alla fine del diciannovesimo secolo. La tesi di Hennessy è che la reificazione dell’identità sessuale, l’emergere di identità omosessuali ed eterosessuali siano una conseguenza dell’impatto dissolvente esercitato dal capitalismo sulla rete di relazioni familiari e sui legami sociali tradizionali e della diffusione del consumo di massa. Le nuove identità etero e omosessuale, dunque, «non solo addomesticarono la potenziale minaccia posta alla differenza di genere patriarcale, ma addirittura reintegrarono quest’ultima all’interno di una nuova ideologia (eterogenere) dell’identità sessuale».

L’intervento teorico di Kevin Floyd, che rappresenta probabilmente a oggi il tentativo più sistematico di integrazione tra teoria queer e marxismo, si muove su linee analoghe a quelle di Hennessy, ma fa ricorso a due diversi concetti chiave della tradizione marxista: quello di totalità e quello di reificazione, per i quali Floyd si confronta criticamente con György Lukács. Le argomentazioni di Floyd sono troppo complesse per essere riassunte in poche righe. E tuttavia, la sua analisi della costruzione della mascolinità negli Stati Uniti, durante quello che Floyd definisce il regime di accumulazione fordista, è forse l’esempio più brillante delle interessanti potenzialità contenute non solo in un’applicazione di un’analisi materialista ai processi di costruzione delle identità sessuali, ma anche in una revisione del marxismo stesso alla luce della critica queer.

Una storicità senza storia

Sottolineando il fatto che nel lavoro di Butler ci si trova davanti a una storicità senza storia, a una considerazione meramente astratta del carattere temporale della performatività, Floyd insiste sul fatto che il carattere performativo della mascolinità nel fordismo è il prodotto di una serie di comportamenti e modelli di consumo prescritti all’interno di un tempo libero rigidamente regolato dalla forma merce. In entrambi i lavori di Hennessy e Floyd, l’esigenza che emerge in maniera preponderante è quella di tornare a un approccio epistemologico e a un metodo di critica sociale che permetta di tracciare nuovamente connessione causali, di spiegare i processi analizzati, anziché limitarsi a descriverli. Un’esigenza, questa, che Floyd riscontra in una parte crescenta della letteratura queer americana.

Intanto, l’editore Pluto Press ha annunciato la pubblicazione entro l’anno del prossimo volume di James Penney, dal titolo, per così dire, «performativo»: After Queer Theory. Il libro conterrà capitoli sui recenti scritti queer di Ahmed, Sedgwick, Puar, Edelman, su sessualità e universalismo, sul marxismo antiomofobo. Ma lo «scandalo», secondo la definizione data dall’autore, risiederà nella tesi centrale. In questo libro, infatti, James Penney sosterrà che la teoria queer ha fatto il suo corso, e che bisogna abbandonare il progetto ormai esaurito di politicizzazione della sessualità e ripensare il rapporto tra sessualità e politica attraverso un ritorno critico al marxismo e alla psicoanalisi.