La successione è casuale, ma un dato comunque emerge: nei templi simbolo di una economia easy, veloce, dinamica è accaduto l’imprevisto che la precarietà del rapporto di lavoro non contemplava. Per primi, dall’altra parte dell’Atlantico, sono stati gli addetti alla pulizie; poi, sempre a quelle latitudini, sono stati i corrieri postali. Nella world factory cinese il testimone è stato raccolto inizialmente dai teen ager che dovevano testare, in una condizione quasi schiavistica, i giochi di ruolo; poi è tocccato ai lavoratori di imprese che assemblano manufatti tecnologici con loghi pesanti (Apple, ovviamente, ma non solo). Poi, quasi in un crescendo, Amazon Germania ha visto scioperi per aumentare i salari dei mini-jobs. L’impresa descritta come il «migliore dei mondi» si è rivelata un inferno di bassi salari, di intimidazioni ad opera del personale di vigilanza con passate militanze in gruppi neonazisti per impedire la presenza del sindacato. Ma anche in Amazon, la precarietà e i bassi sono la norma, come documenta il libro di Jean Baptiste Malet En Amazonie (Kogoi edizioni). La logistica italiana è stata invece scossa da scioperi, picchetti che hanno talvolta bloccato gli snodi portanti della distribuzione della merce; infine, c’è da registrare il fatto che anche i colossi delle merci low-cost (Wal Mart negli Stati Uniti, Ikea in Europa) sono stati investiti da scioperi e campagne di boicottaggio. E se per queste imprese, le condizioni pessime e i bassi salari dei dipendenti erano realtà note da anni, la campagna internazionale contro gli store di Apple ha svelato un mondo di sfruttamento, di precarietà e di fedeltà aziendale coatta sulle quali gli estimatori di Steve Jobs hanno sempre chiuso gli occhi, privilegiando l’apologia di un supposto spirito creativo e innovativo della Apple.

Contro il pensiero unico

Dunque lo sciopero, meglio la lotta di classe ha fatto la ricomparsa nella discussione pubblica. E questa volta non è avvenuto perché il ricco finanziere Warren Buffett ha affermato che i suoi simili stanno conducendo una feroce lotta di classe contro i poveri. Né è dovuto allle esternazioni di studiosi mainstream inorriditi dalle diseguaglianze sociali che hanno raggiunto livelli inimmaginabili solo venti anni fa. Questa volta a parlare di lotta di classe sono lavoratori e lavoratrici. Sia ben chiaro, negli anni scintillanti del capitalismo neoliberista scioperi ce ne sono sempre stati, ma è indubbio che organizzare un picchetto, un volantinaggio erano diventate operazioni difficili da fare. E chi lo faceva sapeva che il licenziamento era quasi automatico. Oppure, la reazione poteva essere anche soft: le imprese semplicemente non rinnovavano il contratto di lavoro a tempo determinato quando scadeva.

Vicende note, che il collettivo Clash City Workers ricorda in apertura di un libro da poco pubblicato dalla casa editrice fiorentina Casa Usher (Dove sono i nostri, pp. 201, euro 10. Quel che interessa agli autori è di offrire un punto di vista sui rapporti sociali che ha rubricato il conflitto di classe come un residuo di un passato oramai lontano. Gli autori non ci stanno a questa lettura «pacificata» del capitalismo, ma sono consapevoli che molto deve essere fatto per uscire da una condizione di minorità teorica, e dunque politica.

Già questo evidenzia che sono militanti senza il timore a sottolineare che l’anticapitalismo e il superamento del regime del lavoro salariato è il loro programma politico. Sono però consapevoli che la realtà da analizzare è molto articolata: verrebbe da scrivere complessa, se il termine non fosse sinonimo, spesso, di una rinuncia all’esercizio critico che conferma il già noto.

Nel volume non sono presenti racconti di scioperi, di mobilitazioni in questa o quell’impresa, in questa o quella città. Per tale tipo di materiali il rinvio è al sito Internet www.clashcityworkers.org. Nel libro l’attenzione è spostata sulla composizione del mercato del lavoro e sulla realtà produttiva italiana. Il punto di partenza sono i dati di Banca Italia, dell’Istat, di Eurostat, del sindacato, che vengono presi e analizzati: per comprendere la realtà, e trasformarla, bisogna «guardare dentro i dati», decostruendo cioè l’aggregato statistico alla luce di una griglia analitica che può essere così riassunta: in questi anni abbiamo assistito a una terziarizzazione della produzione, ma anche a una industrializzazione del terziario. Questo significa che la nozione marxiana di lavoro produttivo può essere applicata a lavori fino a pochi decenni fa ritenuti improduttivi. Da qui la prima annotazione polemica verso gli studiosi che hanno declamato la fine della classe operaia e delle classi sociali, invitando a fare proprio lo strumento dell’»inchiesta operaia». Chi ha letto i «Quaderni Rossi» sa che il tempo dell’inchiesta è quello della lunga durata e che la strada dell’organizzazione della classe è tortuosa.

Le filiere del profitto

Non basta dunque un’ondata di scioperi per decretare un’inversione di tendenza rispetto la situazione data. Gli scioperi, le mobilitazioni, i boicottaggi possono assumere anche radicalità sia nelle rivendicazioni che nelle forme di lotta. Ma è indubbio, tuttavia, che quello che si manifesta tanto in Italia che nel resto d’Europa e negli Stati Uniti restituisce una frammentazione del conflitto di classe e una mancata modifica dei rapporti di forza nella società. E non basta, come affermano invece gli autori, condividere le esperienze di lotta e scoprire «dove sono i nostri» per determinare un’inversione di tendenza. Un dato sul quale riflettere, anche alla luce delle misure prese dal governo italiano che rendono la precarietà una stato d’eccezione permamente. E da tenere in debito conto, anche in vista della giornata europea sull’occupazione giovanile che si terrà il prossimo luglio a Torino.

La prima conclusione presentata nel volume aiuta comunque a gettare luce sul capitalismo italiano. Un tessuto di imprese di medie dimensioni, caratterizzate da un uso intensivo del lavoro e da una fragile e discontinua tensione all’innovazione tecnologica e di prodotto. Questo però non significa che non siano presenti inedite forme di relazioni tra imprese, tese a garantire processi di valorizzazione capitalistica di tutto gli aspetti del processi lavorativo, dalla produzione in senso stretto, alla distribuzione e alla commercializzazione. Non è infatti un caso che una delle parole chiave più ricorrenti è quello di filiera. La rappresentazione del capitalismo made in Italy si colloca dunque al di là delle, queste si, antiche discussioni sull’arretratezza o meno della struttura produttiva del nostro paese. L’Italia è infatti un nodo di un processo produttivo che ha dimensioni globali e inserita in una divisione internazionale del lavoro che le assegna un ruolo marginale e su produzioni a bassa intensità di innovazione. Analisi che trova, ormai, conferme anche in ricerche mainstream, come ad esempio il volume Filiere produttive e nuova globalizzazione (AA.VV., Laterza, pp. 233, euro 22).

Il processo produttivo viene scomposto e ogni suo segmento deve produrre valore e profitti. Sarebbe interessante che intervenisse un’analisi di come il diritto – da quello societario a quello sulla proprietà intellettuale, a quello che regola le migrazioni di uomini e donne – abbia svolto e svolga un ruolo performativo affinché ogni singolo momento della produzione, distribuzione e commercializzazione siano trasformati in momenti produttivi di valore.

Per tornare al volume Dove sono i nostri, il decentramento produttivo, la definizione delle filiere come un unicum capitalistico sono visti anche come un tentativo di rompere o prevenire la formazione di una «soggettività antagonista». Questo, d’altronde, accade ogni qualvolta che il conflitto mette in discussione il processo di valorizzazione. Dietro l’estensione della precarietà, anzi la sua elezione a regime dominante dei rapporti tra capitale e lavoro vivo non c’è però solo un dispositivo politico di prevenzione per quanto concerne la formazione di una «coscienza di classe», ma una norma immanente proprio al funzionamento di quella «totalità». La diversificazione dei regimi contrattuali è infatti propedeutica a intensifi ed estensivi processi di innovazione di prodotto e di processo. Marx avrebbe scritto che la precarietà serve ad ottenere il massimo di plusvalore assoluto e relativo, perché sono messe al lavoro, in tutti i settori economici e produttivo non solo abilità manuali, ma anche cognitive.

Purtroppo, però, nel libro poco spazio è dato al problema della soggettività, spesso rinchiusa dagli autori nella gabbia un po’ troppo angusta della falsa coscienza. Per chi ritiene l’inchiesta uno strumento politico è questo un limite che rischia di cancellare il lavoro di elaborazione precedentemente svolto. La precarietà, oltre a forma dominante del governo politico del mercato del lavoro, mette inoltre in evidenza processi di soggettivazione, che non prevedono, fino ad adesso, processi lineari di ricomposizione della classe, per aderire al lessico usato dagli autori.

Un’astrazione reale

Nel libro, prevale infatti l’intento polemico verso chi ha visto nel lavoro autonomo di seconda e terza generazione il «soggetto centrale» della trasformazione. E critiche non sono risparmiate anche a chi parla di quella costellazione di precariato giovanile e lavoratori della conoscenza che andrebbero a costituire un «quinto stato», successivo temporalmente alla classe operaia industriale. Irrilevanti sono infine ritenute le analisi sui cosiddetti Neet, cioè quei giovani espulsi dalla formazione e che non provano neppure a cercare lavoro, che vanno ad ingrossare secondo gli autori l’esercito industriale di riserva. Se però molti lavori «improduttivi» diventano produttivi, se la precarietà diventa la norma dominante del rapporto di lavoro, la proliferazione delle tipologie contrattuali e delle figure produttive è niente altro il modo attraverso il quale si manifestano proprio le specificazioni di quella astrazione reale che è appunto il lavoro sans phrase.

E un limite del volume è anche la delimitazione del campo analitico alla dimensione nazionale. Sia chiaro: che gli autori siano intenzionati a circoscrivere l’analisi alla dimensione nazionale lo dicono subito, perché vogliono comporre una rappresentazione «oggettiva» della realtà capitalistica. Ma è proprio l’uso della categoria della filiera – e sarebbe da aggiungere di rete, in quando modello organizzativo della produzione – che catapulta il capitalismo nazionale in una dimensione globale.

La geometria del potere

Nel volume, ad esempio, molta attenzione è data ai processi di reshoring, cioè quando le imprese che hanno decentrato tornano nel paese d’origine. Fenomeno che trova conferma nei centri studi mainstream statunitensi, tedeschi e italiani (a questo proposito è interessante l’analisi di Ignazio Masulli Chi ha cambiato il mondo?, Laterza, pp. 230, euro 18). La crisi «scoppiata» nel 2007 non prevede una deglobalizzazione del capitale. Semmai, ne cambia geometrie e rapporti di potere, dove la finanza non svolge solo il ruolo di supplenza alla produzione nel far crescere i profitti, bensì un ruolo di governance nella «totalità» tanto evocato del regime di accumulazione capitalistica. Detto altrimenti, il reshoring non è il simbolo di una deglobalizzazione, ma di un mutamento interno alle geometrie dell’attuale globalizzazione capitalistica.

Un libro quindi diverso da tanta produzione teorica proveniente dai movimenti sociali. Vale la pena di considerarlo un tassello di un puzzle del pensiero critico ancora da comporre, evitando però di imboccare la scorciatoia di chi vede la frammentazione del conflitto di classe come un problema di «deviazione» dalla retta via. A mo’ di conclusione momentanea, va detto che l’attraversata del deserto della frammentazione del conflitto sociale è iniziata, ma non è scontato che la sua conclusione veda una ricomposizione old style della classe. Occorre, semmai, continuare il lavoro teorico teso a sciogliere il bandolo della matassa del molteplice.