Una testimonianza umana incontrovertibile e profondissima. Una lunga fila di scatole di cartone annerite chiuse fermamente con lo spago sono ora disposte sul pavimento di una stanza vuota e una donna, che fino a poco tempo prima portava una stella cucita sul cappotto (per ritrovarle, ha attraversato una Varsavia sventrata e annichilita dalla guerra), si appresta con emozione immane a tagliare quei lacci e ad aprirle. Così, in quel nulla post distruzione – sono trascorsi solo quindici mesi dalla Liberazione – affiorano dal cartone rotoli e ritratti, disegni di bambini, fotografie e cartoline, pagine e pagine di diari, ciascuno con la sua grafia, quadernetti con la copertina grigia dell’epoca, fogli di giornale e ogni tipologia di documento. Che cosa significava vivere giorno dopo giorno nel ghetto dove a partire dal novembre del ‘40 i nazisti rinchiusero 450 mila ebrei in condizioni di vita sempre più aberranti, fino alle esecuzioni, agli stupri, alle deportazioni di massa, fino allo sterminio?

Sono tessere di quel mosaico importante e complesso che è Who Will Write Our History, il documentario di Roberta Grossman, prodotto da Nancy Spielberg (sorella di Steven), e proiettato come evento speciale nei giorni scorsi alla Festa del Cinema di Roma alla presenza della regista.

In un’altra sequenza, stavolta in bianco e nero – sono frammenti di repertorio – vediamo il momento in cui quelle scatole inestimabili, grazie al lavoro di piccone degli operai, vengono estratte dal luogo in cui erano state nascoste con angoscia e cura assoluta. A emergere è una parte dell’Archivio Onyeg Shabes, in tutto 60mila pagine di documenti raccolti dalla omonima associazione (in yiddish significa “La gioia del Sabato”), un gruppo segreto di giornalisti, economisti, artisti e capi della comunità ebraica polacca che, insieme alla loro guida, lo storico Emanuel Ringelblum, furono reclusi dai nazisti nel ghetto. “Non eravamo in grado di piangere. Tutto quanto di più profondo possedevamo, lo avevamo seppellito nell’archivio. Vorrei poter vedere quando sarà ritrovato e gridare al mondo quello che abbiamo vissuto, la verità”. (Dalle ultime volontà di Dawid Garber, 19 anni).

Purtroppo oggi questo film è più aderente al presente di quando ho iniziato a farlo sette anni fa”, così Grossman a Roma. “Non solo c’è un’ascesa del nazionalismo in tutto il mondo compreso nel mio Paese, ma assistiamo a una sorta di accettazione delle menzogne della propaganda al posto della verità. E le persone di cui racconto nel documentario erano pronte a morire per amore della verità. Per narrare la Storia dal punto di vista degli ebrei. Questo in tempi in cui il controllo dell’informazione era in mano ai nazisti, non c’era internet né altri mezzi di comunicazione e ciò nonostante sono riuscite a fare uscire queste notizie dalla Polonia per farle arrivare alla resistenza polacca a Londra. Non voglio però ripetere dei cliché, perché alla fine la maggior parte di loro è morta e di certo avrebbero preferito vivere piuttosto che avere la garanzia che i loro scritti sopravvivessero. Quello in cui speravano non era una vittoria morale, ma la salvezza”.

Struttura portante del film, il libro omonimo di Samuel D. Kassow, studioso che insieme ad altri in Polonia, Stati uniti e Israele è stato a fianco di Grossman nella scrittura di un progetto che ha comportato ricerche anche in Germania e Russia. “Considero questa la più importante storia sconosciuta dell’Olocausto. Ma forse dovrei smettere di dirlo, perché in realtà ce ne sono sei milioni e ognuno dei sopravvissuti che ho incontrato mi ha chiesto di raccontare la propria. Perché nonostante il suo valore immenso la storia di Who Will Write Our History è rimasta sepolta? Intanto perché prima l’Archivio si trovava oltre la cortina di ferro e poi perché è un progetto troppo onesto, scritto in contemporanea con la segregazione e le deportazioni, quindi ci sono tedeschi cattivi ma anche buoni, ebrei eroi ma anche pessimi come quelli che tradiscono e consegnano gli altri alla Gestapo, ci sono anche prostitute ebree. Dopo la guerra mancava la disponibilità ad ascoltare questa complessità: il popolo, in stato di shock profondo, voleva sentire le storie degli eroi, della rivolta del ghetto e non quelle di chi era rimasto a casa a scrivere un diario. Credo che l’Archivio sia tremendamente umano e che i suoi autori siano eroi. Per me la madre che rischia la vita per andare dal lato ariano a procurare cibo per il figlio non è meno eroica del ragazzo che tira una molotov durante la rivolta del ghetto”. Allo stesso modo lo è la ragazzina di 14 anni, Sara Sborow, che racconta la sua notte accanto alla madre morta nelle condizioni abitative disumane in cui erano costrette a vivere nel ghetto.

In questa amplissima ricerca, immane è il materiale d’archivio con cui l’autrice ha dovuto confrontarsi: “La propaganda è sempre stata una parte consistente della macchina nazista. Le riprese fatte nel ghetto avevano l’intento di dare l’immagine peggiore possibile degli ebrei. Come cineasta ho rivendicato il mio diritto di scegliere tra quei materiali quelli che mostravano situazioni autentiche indipendentemente dal punto di vista con cui erano stati girati”. Per orientarsi in questo mare di immagini, in cui i ritratti dei protagonisti emergono dal nero come in un bassorilievo fotografico, Grossman ha scelto di seguire la guida degli scritti di Rachel Auerbach, la critica letteraria esperta di storia delle donne chiamata da Ringelblum a far parte dell’Archivio e a gestire la cucina del ghetto. Sarà l’unica tra i 60 membri dell’Onyeg Shabe, con Hersh Wasser e sua moglie Bluma, a sopravvivere al genocidio, e sarà lei a compiere il gesto di cui sopra, ad aprire quelle scatole preziosissime a guerra finita, nonché a creare successivamente in Israele il Survivors Testimony Department, cruciale anche per il processo Eichmann.

Si dipana così, tra incandescenti materiali d’archivio in bianco e nero e messe in scena a colori di impianto a volte troppo teatrale (rigore filologico vuole che le parole degli attori siano quelle dei diari dell’Archivio), la narrazione di Rachel – voce over di Joan Allen, mentre Ringelblum è Adrien Brody – a rivivere la spirale nefasta che si abbatte sugli ebrei di Varsavia, ritratti all’inizio degli anni ‘30 nel fulgore di una società ricca di giornali e di teatri, con una Unione Yiddish di giornalisti e scrittori che conta 400 membri, fino all’invasione nazista del settembre del ‘39, al loro allontanamento dai posti di governo e dalle imprese, alla propaganda che li descrive come portatori di malattie causate dalla scarsità di igiene, alla divisione della città in tre parti (tedesca, polacca ed ebrea), al loro essere confinati nel ghetto in condizioni degradanti e sempre più impoverite, in preda alla fame e alle violenze dei nazisti e della polizia ebraica, mentre si susseguono le uccisioni e gli incendi, tra i corpi dei morti ammassati, quello scheletrico di un bambino cade da un carretto, le esecuzioni di massa fino alla grande deportazione…

Un violinista con la stella al braccio suona per strada, gli Ebrei sono costretti a vendere ogni cosa al mercato nero, in tutto questo Ringelblum istituisce una biblioteca per i piccoli, alla mensa di Rachel oltre a pasti caldi si dà il conforto della solidarietà, le riunioni segrete culturali dell’archivio si succedono, in una battaglia campale tra la barbarie e l’umanità. “Sarà il trionfo dell’umano sull’inumano, se la nostra volontà di vivere è più forte della loro di distruggere”.

Nel 1999 l’Unesco inserisce nel Registro della Memoria del Mondo tre collezioni di documenti polacchi: i capolavori di Chopin, le opere di Copernico e l’Archivio Onyeg Shabe.