Marsiglia Danza ha visto annullare i suoi spettacoli uno dopo l’altro dalle proteste degli intermittenti, i precari dello spettacolo francesi che da oltre un mese stanno manifestando duramente contro la riforma – peraltro già firmata dalle parti sociali e dal governo – del sussidio di disoccupazione. Nelle acque intorno al Vecchio Porto galleggiano le bare della cultura – il nuovo statuto colpisce i lavoratori al ribasso – mentre i teatri per ora rimangono sbarrati.
A Avignone,che da Marsiglia dista pochi chilometri, seguendo il profumo estivo della Provenza, l’assemblea dei lavoratori ha deciso invece per lo svolgimento del Festival-inaugurazione dopodomani affidata al Principe di Homburg, regia di Giorgio Barberio Corsetti – anche se con modalità «militanti», ovvero interruzioni e sospensione di qualche spettacolo. Un segnale positivo, visto che la rassegna teatrale nella città dei Papi era l’evento intorno al quale si concentrava la maggiore tensione – l’altro giorno era intervenuta anche la ministra della cultura Aurélie Filppetti.
Capitale europea della cultura lo scorso anno, che nelle ultime elezioni ha riconfermato l’Ump alla guida della città (sindaco è Jean-Claude Gaudin), preferendo il Fronte nazionale ai socialisti (finiti al terzo posto) Marsiglia, città di confine in ogni senso, è anche la sede del Fid, il Festival internazionale del documentario che si è aperto ieri (fino al 7), e che quest’anno compie 25 anni.
L’indicazione nel nome però, cioè documentario, non rende il senso di un progetto che nei suoi molti itinerari – una tripla competizione, internazionale, francese e per le opere prime, e una serie di schermi paralleli che spesso raccolgono le scoperte più spregiudicate della programmazione – mette a punto una ricerca che respinge qualsiasi etichetta del «genere». Cosa significa documentario al Fid Marseille, nelle molte sale (stavolta anche il nuovo Mucem, il Museo del Mediterraneo) che accendono in questi giorni i loro schermi è difficile dirlo. O meglio: possiamo affermare che è una sorta di intreccio, di caleidoscopio, un terreno in cui si incontrano (e si scontrano) infinite linee, senza separazione, dell’immaginario. Crossover, installazione, archivi, memoria, attualità, romanzesco, autobiografia, narrazione: le scelte del Fid non si pongono il problema del limite, questo è il manifesto teorico rivendicato dal direttore, Jean-Pierre Rehm, col suo gruppo di lavoro.

02VISSINaopertura1-Eau-argentee

Ci sono nomi noti nel cartellone, e altri meno conosciuti almeno da noi in Italia. Per esempio Paul Vecchiali con Faux raccords (che verrà presentato anche al Med Film festival di Roma, 4-13 luglio, nell’ambito di un omaggio al regista corso). Ritroviamo Eric Baudelaire, autore del sorprendente Anabase, in gara a Marsiglia qualche anno fa, una sorta di conversazione incrociata tra lui e il regista giapponese Masao Adachi, tra la Storia e l’esperienza personale, tra le false partenze e i falsi ritorni. In Letters to Max il regista francese racconta una corrispondenza epistolare che diviene, al tempo stesso, riflessione sull’idea di confine geografico e politico, nazione, realtà e finzione. Il Max del titolo vive in Abhkazia, lo stato nato dalla separazione con la Georgia, che ha una bandiera, dei confini appunto, ma non è mai stato riconosciuto a livello internazionale. Esiste dunque o no?
La Siria, e la sua condizione di guerra, massacri, esodi, violenze cerca una sua immagine in Our terrible Country di Mohammad Ali Atassi e Ziad Homs, un anno nella vita dello scrittore Yassin Haj Saleh, figura chiave della dissidenza siriana contro il regime di Assad, che dalla guerra viene costretto all’esilio a Istanbul.
La Siria è anche Eau Argentée – Syrie autoportrait di Ossama Mohamamd e Wiam Simav Bedirxan, il film più bello dello scorso Festival di Cannes, che la selezione artistica assurdamente non ha messo in concorso – prigionieri del «paletto» che esclude i «documentari» – e che il Fid ripropone, giustamente, nonostante la sua predilizione per le anteprime mondiali (quasi tutti i film nel cartellone lo sono). Una relazione a distanza tra i due registi, uno a Parigi, l’altra a Homs durante l’assedio, tra bombe, morti, macerie, e il dolore acuto di diventare clandestini nella propria città, lontani dalla casa in cui si è sempre vissuti, dagli amici scomparsi o uccisi o fuggiti, dalla famiglia perduta per sempre. C’è solo un bimbo che gioca coi morti, e porta un fiore con sé, cammina senza avere paura dei cecchini e delle pallottole, forse per non impazzire lo ha trasformato in un gioco.
Le sezioni parallele si ispirano a Marguerite Duras, scrittrice e regista, di cui verranno riproposti alcuni «classici» come Le Camion e India song.
La Vie Matérielle, La Douleur, La Java de la Source, Les Yeux Verts sono i titoli che raggruppano i programmi, e rimandano alla poetica della scrittice. Mentre sotto la parola Esilio troviamo l’omaggio al regista Oscar Micheaux. È la scommessa del festival, la sua unicità, questo lavoro di riflessione, e messa alla prova costante delle immagini. Senza fermarsi alla vetrina.