Una lettera appare all’improvviso sullo schermo, bianca e nera ma rossa di rabbia e di lotta che, per un istante, non fa sentire la mancanza della splendida sigla di Apordoc (Associação pelo Documentário che organizza DocLisboa), che introduce ogni proiezione, dove braccia di tutto il mondo e in tutti i formati lavorano la terra. Le righe sono poche, i firmatari molti, il contenuto chiaro: denunciare la lista, approvata dalla Sezione specializzata per il Cinema e l’Audiovisivo, dei nuovi membri della commissione per la richiesta di fondi statali a sostegno del cinema di qualità.

Non è un caso che la lettera sia apparsa poco prima della proiezione di Joao Benard da Costa-Others Will Love the Things I Loved di Manuel Mozos, documentario che ricostruisce la figura del leggendario direttore della Cinemateca di Lisbona, fautore ostinato del cinema d’autore portoghese.

Cintia Gil, direttrice di DocLisboa, insieme a Augusto M.Seabra, ha definito la nuova commissione, «una parodia della democrazia» a causa della presenza di non meglio conosciute attrici di soap-opera e di registi troppo «commerciali», per poi rassegnare le sue dimissioni e quelle dello staff del Festival – che fa parte dell’Istituto di Cinema e Audiovisivo. Congedo di massa, dunque, provocato dalla nuova legge sul cinema portoghese che rischia di ritrovarsi ancora più isolato produttivamente, impoverito, incerto nel futuro.

Un sentimento comune aleggia, molti chilometri più a est, in un luogo sospeso fra due realtà, paradossali e contraddittorie, nell’angolo di mondo chiamato Abkhazia. Letters to Max di Eric Baudelaire, premio speciale della giuria nel Concorso lungometraggi (Alessandro Rossetto,Chris Fujiwara, Dominique Audray, Nicolas Pereida, Nuno Lisboa),è un’esplorazione dell’identità di una nazione, l’Abkhazia, appunto, ex regione della Georgia, proclamatosi stato indipendente nel 1991, che per diversi anni ha combattuto una guerra con i georgiani confinanti, prima in solitaria poi insieme all’Ossezia del Sud, fino a che nel 2008 la Russia ha riconosciuto la sua indipendenza. Un’autonomia però non accettata dal resto del mondo che non ha mai riconosciuto l’esistenza «legale» di questo Stato nonostante un governo, dei confini, una bandiera e una lingua. Questa disputa internazionale è il fulcro di uno scambio di lettere, rischioso e ambiguamente retrò, fra Baudelaire, studente di fotografia in Abhkazia agli inizi dello scorso decennio, e Max Gvinjia, amico abhkazo di vecchia data che svolge funzioni diplomatiche all’interno dello Stato. Le parole del regista appaiono sullo schermo nei muri e nei cieli dell’Abhkazia, s’imprimono su immagini di cartine geografiche desiderose di riconoscimento, di antiche spiagge del Mar Nero, di canti e balli nelle strade della capitale Sukhumi, sulle tracce del tempo lasciate dalle carcasse sovietiche di palazzi abbandonati.

Le parole di Max invece, lette da lui stesso, illustrano la vita con moglie e figli mentre il dramma di un’identità negata cerca una reificazione nei corridoi di un ufficio, nel ricordo fotografico di una visita nella Venezuela di Chavez, nelle bandiere abhkaze in cerca di un vento più forte al quale dispiegarsi. Max, nella disperata ricerca di una futura legittimazione, rivive nelle sue missive la disfatta di una guerra che, pur vittoriosa, ha decretato la separazione dalla Georgia ma l’assorbimento, di fatto, della Russia. Max, nel frattempo diventato Ministro degli Esteri, guarda con nostalgia all’Unione Sovietica dove «si viveva davvero bene tra culture cosmopolite che sbarcavano nel nostro grande porto come se fosse una piccola New York», e vede nel riconoscimento della sua terra una possibilità di benessere. Eric Baudelaire prosegue nella sua ricerca, ormai decennale, sulle possibilità di «fiducia» dell’immagine, filmando un carteggio forse impossibile, probabilmente «non corrisposto» vista la quantità di lettere che ritornano al mittente a causa di un indirizzo non riconosciuto, fatto di guasti postali e ritardi temporali. La presenza/assenza del regista ci trasporta, soltanto con la voce e quasi con giocosa malinconia, fra le immagini, i suoni e i colori dell’Abhkazia, costruendo un’unità nazionale e culturale ma Letters to Max travalica la questione puramente politica per farsi riflessione sulla memoria, sul tempo, sulla facoltà «missionaria» del cinema.

Il desiderio di apertura dell’Abhkazia è il controcampo della drammatica costrizione in Corea del Nord di Tourisme International di Marie Voignier, purtroppo dimenticato dal palmarès della sezione cortometraggi, altro viaggio finto-turistico all’interno di una nazione dove però la parola, non solo cinematografica, è totalmente abolita. L’esplorazione territoriale del film, infatti, non prevede dialogo o vocaboli ma si affida ai piccoli, quasi sordi, rumori del quotidiano di un gruppo di turisti in visita nei musei, fra i monumenti, nelle sale e negli studi cinematografici, facendoci perdere così le coordinate geografiche. Marie Voignier filma la dittatura non solo politica ma anche corporea esibita ai turisti, coreografata nella forma più inquietante di auto-rappresentazione: le guide turistiche, private del sonoro, si muovono meccanicamente, come nelle grandi parate militari, recitando le falsità di un copione propagandistico e predefinito.

Del tutto «libero» e paradossalmente sconfinato, infine, lo sguardo, ancora una volta partecipe e commosso nella sua apparente distanza, di Wang Bing, vincitore (per la quarta volta a DocLisboa) con il suo Padre e figli. Due bambini in una casa-stanza di pochi metri quadri con cani, giacigli, televisore sempre acceso e un cellulare come unica via di fuga, filmati da una macchina da presa sempre fissa, implacabile e pudica, per radiografare solitudini e miseria di un microcosmo che nella lunga durata delle sue sequenze si fa metafora di una tragica condizione senza confini.