C’è il sole sulla Berlinale nelle ore che precedono l’apertura dell’edizione numero 67. Tutto è pronto, red carpet, transenne, schermi per le dirette mentre l’orso simbolo del festival sbuca ovunque già da giorni sui poster disseminati in città. Lo avevano promesso, Angela Merkel in testa dopo l’attacco terrorista al mercato di Natale, che non avrebbero ceduto alla paura. E così è stato. C’è qualche controllo, almeno nella sede dello Hyatt, l’albergone di lusso che ospita gli uffici del festival e gli incontri stampa, chiedono di aprire la borsa ma nulla di più. Niente transenne o dissuasori – come quelli modello check point che circondavano il palazzo del cinema durante l’ultima Mostra di Venezia– nessuna aggressività come sulla Croisette nei giorni del festival di Cannes. La Berlinale del resto è in sinergia totale con la politica del governo tedesco, lo aveva già dimostrato lo scorso anno con l’attenzione nei confronti dei migranti e dei rifugiati, e lo conferma quest’anno.

Sono infatti ancora loro al centro dell’attenzione, protagonisti delle storie, delle immagini sugli schermi nei prossimi giorni la cui esigenza più importante sembra appunto quella di interrogarsi sul presente, sulla realtà che ci circonda e su come rappresentarla. È questo il tema anche della mostra – aperta ieri alla Akademie der Kunst – del Forum Expanded, titolo «The Stars Down to Earth». Quasi tutte le installazioni presenti – tra gli artisti Lina Attalah, Mohamed A. Gawad, Noam Enbar, Orab Toukan, – guardano al nostro tempo concentrandosi sui paesi in guerra, Siria, Libano, Palestina, Israele, la vita nei territori occupati, la realtà dei «martiri», i ragazzi che combattono con gli Hezbollah, gli itinerari dei migranti…

Tripli schermi, mappe, archivi, passato, presente. È strano però quanto manchi questa parte di mondo, la «tranquilla» quotidianità dell’occidente, come se qui – in Germania ad esempio – vi sia una condizione esemplare, come se il conflitto sociale, economico, esistenziale non esista. Diamo voce all’altrove per non parlare di noi: forse è solo più difficile, e rischioso, affrontare questa superficie nella sua profondità? – sarà per questo che della mostra mi rimane in testa il viso di Izadora, nella videoinstallazione omonima di Marie Kroeger, Philippe Scheffner, Izadora Nistor, una ragazzina, un viso che si immerge nella vita, un attimo in cui tutto è possibile.

È però il «politicamente corretto» rassicurante che prevale – con tutte le buona intenzioni, per carità – lo stesso di cui è pieno il film scelto per l’apertura, Django di Etienne Comar, dal nome del suo protagonista, Django Reinhadt, genio della musica che ha attraversato come una stella il secolo scorso morendo a soli 43 anni, nel 1953, amatissimo dai jazzisti come Duke Ellington, ispirazione per generazioni di musicisti successive, con la sua chitarra e il tocco unico delle mani (suonava con tre dita, due le aveva perse in un incendio da ragazzo), mischiando jazz e tradizione gipsy, un abbraccio sensuale e irriverente. E però in Django, la musica non c’è. O meglio è un complemento illustrativo della sceneggiatura, non permea il film, non ne è parte viva, vitale, non fa correre le immagini come le sue dita sulle corde della chitarra. Ciò che preoccupa il regista è il «contesto», il momento della vita in cui racconta Reinhard: Parigi, la Francia nel 1943, occupata dai nazisti che insieme agli ebrei deportano e uccidono i gitani.

Django (Reda Kateb) è un Sinti come tutta la sua famiglia. Ama suonare insieme al suo HotClub Quintet, guadagnare, divertirsi c’è la musica, il resto non lo interessa. Comar lo tratteggia come vuole la leggenda di ogni musicista: sfacciato, capriccioso, ha molte donne ma ama solo moglie (che è la seconda…); si fa aspettare, troppo occupato nella pesca, mentre il teatro pieno scalpita e sul palco d’onore ci sono i nazisti. In scena sbronzo, passa la notte con una sua ex, amante mai dimenticata – la sempre charming Cecile De France – alla sequenza di lei che si spoglia, stacco, sempre lei a letto che fuma viene voglia di scappare via. Ma sono passati neppure 30 minuti. Però i film è già tutto lì. Si dice che Django amasse le macchine di lusso, il cinema americano, le sue star come Clark Gable, il gioco. Di tutto questo rimangono frammenti di prevedibile scrittura.

Comar, produttore e sceneggiatore (tra gli altri dell’assai meccanico Mon Roi di Maiwenn) svolge il suo compitino nel film d’esordio da regista; evita il biopic (non lo è un film «su» Django questo) per bilanciare in un andamento estremamente formattato della narrazione, e in personaggi che rimangono allo stadio della figurina, la Storia: il Male assoluto dei nazisti, le colpe dei francesi (che certo il governo di Vichy ha fatto cose orribili prono ai nazisti) le responsabilità della resistenza che utilizza il musicista per i suoi scopi. Restano i gitani, dei quali interessa poco, e la resistenza cocciuta di Django anche se poi fuggirà in Svizzera. Fa un po’ Wikipedia ma certo non è cinema.