Let me take you down – Lascia che ti accompagni – ‘Cause I’m going to Strawberry Fields – Perché sto andando nei Campi di Fragole Nothing is real – Niente è reale – And nothing to get hungabout – E niente per cui preoccuparsi – Strawberry Fields forever – Campi di Fragole per sempre. Living is easy with eyes closed – Vivere è facile con gli occhi chiusi – Misunderstanding all you see – Fraintendendo tutto ciò che vedi – It’s getting hard to be someone – Diventa difficile essere qualcuno – But it all works out – Ma tutto si risolverà – It doesn’t matter much to me – Non mi interessa molto.

La celebre canzone dei Beatles, Strawberry Fields forever, è del 1967; scritta da Lennon, riporta un suo ricordo infantile: un campo di fragole oltre una vecchia sede dell’Esercito della Salvezza, in cui lui ed altri bambini andavano a giocare senza alcuna preoccupazione, dimentichi di se stessi e della realtà del mondo, come solo i bambini sanno fare. Queste fragole torneranno come logo della casa editrice del giovane protagonista di Across the Universe, il musical del 2007 con le canzoni dei Fab4.

Ma, curiosamente, l’atmosfera onirica e visionaria della canzone, sembra la trasposizione in musica dell’altrettanto celebrata sequenza del film di Bergman, Il posto delle fragole, in cui il vecchio medico Isak Borg, oramai alla fine della vita, si lascia travolgere dai ricordi della passata giovinezza, nel luogo in cui il suo primo amore coglieva il dolce frutto selvatico. La scena, epitome di tutta la pellicola, è immersa nella stessa aura di infantile onirismo, carica di simboli impercettibili a chi non fosse in grado di immergersi coi pensieri nella stessa atmosfera sospesa tra due mondi: l’attuale e l’eterno.

La dinamica poetizzata nella canzone e quella della sequenza filmica sono le stesse: il professore si inoltra, con la giovane nuora, sulla strada che porta alla casa dove trascorreva le vacanze da ragazzo. Capiamo subito che è lei a spingere l’uomo verso il luogo magico: arrivati nel posto, infatti, non lo segue, ma lo precede verso la vecchia costruzione oramai abbandonata. Poi, ad un tratto, la nuora assume il ruolo di ninfa marina: si allontana per fare un bagno, per tornare al suo elemento, l’elemento onirico per eccellenza, l’acqua. Il professore la lascia andare trasognato, annuendo con un: «abbiamo tempo». E da quel momento si apre il Grande Tempo del ricordo, che addensa il passato, il presente ed il futuro.

Già nella radura antistante l’edificio oramai disabitato, avevamo visto una scala poggiata ad un albero: ricorda curiosamente quella di Giacobbe, o l’immagine alchemico-massonica dei gradini verso la conoscenza: la possiamo vedere incisa alla base del Portale del Giudizio Universale sulla Cattedrale gotica di Notre Dame di Parigi. È da quel passaggio simbolico che la nuora-ninfa precederà il protagonista verso «il posto delle fragole». Ma è esattamente l’entrata nel loro posto a dissolvere la realtà del giorno, come ci dice lui stesso, riportandolo indietro nel tempo a rivivere episodi della sua giovinezza felice. Il vegliardo, ormai stanco e reso cinico dalla vita, si stende per terra, accanto al cespuglio in fiore, forse per la prima volta da tanto tempo senza pensieri assillanti, come il Lennon bambino nel suo campo di fragole per sempre.

Tornano così le speranze perdute, incarnate dall’immagine irreale, eppure presente, della cugina Sara, come evocata dalla sensazione tattile che al corpo del medico trasmettono le piccole foglie di fragola nascoste sotto l’erba primaverile. Il filo rosso della rêverie, si snoda così attorno alla figura della bella ragazza, intenta a raccogliere in un paniere rustico il frutto che, più di tutti gli altri, rappresenta il tema dell’amore. Una ninfa scompare nel presente con un tuffo nell’acqua, ed un altra ricompare dal passato, come fossero Pathosformel warburghiane che si snodano nella Mnemosyne personale ed intima dell’anziano dottore.

Il mito di Venere e Adone

La pellicola si apre con una scena da incubo: il professore incontra lungo una strada deserta un carro funebre, dal quale cade una bara; apertasi su selciato, all’interno egli vede il cadavere di stesso afferrargli fermamente la mano.

Un sogno inquietante, che ben si collega alla natura simbolica delle fragole. Queste, infatti, sono le lacrime di Venere che, intrise del sangue del suo amato Adone, si trasformarono nel carminio frutto a forma di piccolo cuore.

Il mito, nelle sue varie versioni, dispiega così la gamma evocativa della fragola, e rende ragione della sua significanza come immagine. Le sue tonalità simboliche, che oscillano ambiguamente tra Eros e Thanatos, derivando tutte dal mitologema che narra della relazione tra la dea dell’amore ed il suo efebico amante, ma anche della natura stessa di Adone.

La storia del ragazzo, infatti, è tesa tra il buio del mondo infero e lo splendore della natura rinata, della quale egli era un simbolo, sin dai tempi delle religioni asiatiche, sotto forma del sumerico Tammuz.

Ritroviamo allora la sua figura in tutto il medio oriente, e nel bacino del Mediterraneo, con vari nomi: è, infatti, di volta in volta assimilato alla divinità egizia Osiride, al semitico Baal Hadad, all’etrusco Atunnis, all’anatolico Sandan, e anche al frigio Attis; tutte divinità legate alla rinascita e alla vegetazione. Questo lo rende analogo a Dioniso, l’archetipo della vita indistruttibile che, con Adone, condivide i passaggi fondamentali del suo ciclo divino, in cui il frutto della fragola riveste un ruolo simbolico affatto particolare.

Come spiega James Frazer ne Il ramo d’oro, «il culto di Adone fu praticato dalle genti semitiche di Babilonia e Siria e i Greci lo presero da loro agli inizi del settimo secolo avanti Cristo. Il vero nome della divinità era Tammuz: Adone è semplicemente il nome semitico Adon, “signore”, un titolo onorifico con il quale i fedeli si indirizzavano a lui. Nella letteratura religiosa babilonese Tammuz appare come il giovane sposo o amante di Ishtar, la grande dea madre, incarnazione delle energie riproduttive della natura».

Ritroviamo le stesse determinanti simboliche nell’Adone greco: egli nasce da una relazione incestuosa tra Cinira, re di Cipro (ubriacato ed ingannato per l’occasione dalla nutrice Ippolita), e sua figlia Mirra, entrata in uno stato di pazzia amorosa per il padre. Il re giace con la figlia per nove notti, credendo si tratti di una giovane che si era invaghita di lui. Non la riconosce perché la complice nutrice gli aveva imposto di incontrarla al buio, per non comprometterne l’identità.

Ma la moglie del re, insospettita dal suo comportamento, entra di notte nelle stanze del marito ed illumina la scena. Accortasi dell’insano gesto di Cinira, la regina Cancreide, cerca di uccidere la figlia, che viene però trasformata da Afrodite nell’albero della mirra. La pazzia di Mirra è stata, infatti, suscitata da Venere stessa, che voleva forse vendicarsi di Cancreide e della figlia perché non le avevano reso gli onori dovuti, o si vantavano di una bellezza a lei superiore o, semplicemente, di avere capelli più affascinanti. Fatto sta che dalla relazione incestuosa Mirra partorisce, in forma di albero, un neonato bellissimo quanto maledetto: Adone.

Venere lo consegna a Persefone perché lo protegga dai mali del mondo, nell’Ade. Ma Persefone si innamora del bellissimo bimbo e, giunto all’età pubere, lo vuole per se. Anche Afrodite lo reclama, dato che la sua bellezza l’ha fatta innamorare. La contesa viene diretta da un tribunale presieduto dalla Musa Calliope che decreta, salomonicamente, l’appartenenza del ragazzo ai due regni. Da qui la sua simbolica come ciclo della natura, che si risveglia a primavera, come le fragole, e muore in inverno.

Adone, intanto, cresce, e diviene un abile cacciatore, amato da Venere. Ma Marte – eterno amante “tradito” da Venere, che ne apprezza solo per pochi momenti il vigore fisico, ma ne disprezza l’ottusa brutalità – preso da insana gelosia, gli scaglia contro un cinghiale, che lo ferisce a morte. Venere piange disperata sopra il corpo ormai esanime dell’amato, e le sue copiose lacrime, cadendo a terra e mischiandosi col suo sangue, si trasformarono in piccoli cuori rossi: le fragole.

E dunque la tonalità infera della fragola nasce col e dal mito, che racconta di un frutto al tempo stesso simbolo di passione amorosa e di morte. La scena del film Fragole e sangue, in cui il giovane protagonista stringe nel pugno una fragola sino a stillarne il succo come gocce di sangue, riprende cinematograficamente questa determinante simbolica.

Il culto di Adone aveva un posto importante durante le dionisiache, dato il collegamento tra la divinità principale e la memoria del bel ragazzo amato da Venere. Oltretutto tra Dioniso e Marte le relazioni sono sempre state pessime, data l’opposizione dei due principi; da questo l’accoglienza di Adone nelle feste del dio dell’ebbrezza.

Passa il tempo, ed il culto del bel giovane si trasferisce nell’antica Roma. Qui il frutto viene chiamato fragra, da cui l’italiano fragola, ma anche fragranza. Si utilizzavano nei banchetti in onore di Adone, mentre in Grecia si continuavano a celebrare le festività dette Adonìe. Tipico di queste occasioni era la raccolta delle fragole ed altri frutti di stagione in piccoli cestini, che venivano chiamati «giardini mobili». Possiamo immaginare le giovani donne che si chinano a raccogliere le fragole, esattamente come Sara nella scena centrale del film di Bergman.

Le fragole di Shakespeare e Paracelso

«Colui che non sa niente, non ama niente. Colui che non fa niente, non capisce niente. Colui che non capisce niente è spregevole. Ma colui che capisce, vede, osserva… comprende che la maggiore conoscenza è congiunta indissolubilmente all’amore… Chiunque crede che tutti i frutti maturino contemporaneamente come le fragole, non sa nulla dell’uva».

Così, nel periodo della Rinascenza neoplatonica, Paracelso, l’innovatore della medicina basata sulle corrispondenze tra micro e macrocosmo, apostrofava chi ignorava le «segnature» che la Natura naturans lasciava su ognuna delle sue creazioni. Non a caso usa la relazione tra la fragola (Adone), e l’uva (Dioniso), come epitome di ogni relazione tra principi naturali, data anche la loro potente ambivalenza in fatto di potere sulla psiche.

L’osservazione che i frutti delle fragola maturano contemporaneamente, in specifico, va inserita nel sistema delle corrispondenze, delle analogie, delle «segnature», che culmineranno nel Seicento con l’allestimento delle grandi Wunderkammer di epoca barocca, per poi tramontare sotto i colpi dell’Illuminismo e della sua separazione tra discipline scientifiche.

Di quelle «segnature» dirà Paracelso, nel IX libro del trattato De natura rerum, che appunto si intitola De signatura rerum naturalium: «Nulla è senza un segno» egli scrive «poiché la natura non lascia uscire nulla, in cui essa non abbia segnato ciò che in esso si trova» (III, 7, 131).

Anche Jacob Böhme, nel suo Signatura Rerum, dice che «la segnatura sta nell’essenza ed è simile ad un liuto che rimane silenzioso, ed è muto e incompreso, ma se qualcuno lo suona, allora s’intende… Così anche il segno della natura è, nella sua figura, un essere muto… Nell’animo umano la segnatura sta artificiosamente predisposta secondo l’essenza di ogni essere e all’uomo manca soltanto il maestro che può suonare il suo strumento».

E allora la fragola, come simbolo dell’amore che apre lo sguardo alle corrispondenze è, per l’alchimista Paracelso, la base stessa della sua nuova Arte: la spagirica, la possibilità cioè di estrarre, seguendo le procedure alchemiche, l’essenza intima di ogni pianta che, così, può aiutare l’uomo accorto e grato, a vivere meglio la su esistenza terrena.

«Come infatti attraverso uno specchio ci si può osservare con cura punto per punto, lo stesso modo il medico deve conoscere l’uomo con precisione, ricavando la propria scienza dallo specchio dei quattro elementi e rappresentandosi il microcosmo nella sua interezza […] L’uomo è dunque un’immagine in uno specchio, un riflesso dei quattro elementi e la scomparsa dei quattro elementi comporta la scomparsa dell’uomo. Ora, il riflesso di ciò che è esterno si fissa nello specchio e permette l’esistenza dell’immagine interiore: la filosofia quindi non è che scienza e sapere totale circa le cose che conferiscono allo specchio la sua luce. Come in uno specchio nessuno può conoscere la propria natura e penetrare ciò che egli è (poiché egli è nello specchio nient’altro che una morta immagine), così l’uomo non è nulla in sé stesso e non contiene in sé nient’altro che ciò che gli deriva dalla conoscenza esteriore e di cui egli è l’immagine nello specchio».

In questo quadro diagnostico-anamnestico, il ruolo della fragola come rimedio è centrale. Essa veniva denominata «frutto cuore» poiché si riteneva che, al tempo stesso, placasse la passione amorosa, o la potesse accendere, a seconda delle «segnature» che il corpo del paziente mostrava. La sua capacità di crescere circondata da altre erbe contenenti principi, anche pericolosi, o di dare spesso rifugio a serpenti e scorpioni senza che il loro veleno la toccasse, la fa diventare protagonista di un celebre sonetto di Shakespeare che ne magnifica proprio queste doti: «La fragola, che cresce sotto l’ortica, rappresenta l’eccezione più bella alla regola, poiché innocenza e fragranza sono i suoi nomi. Essa è cibo da fate». La «regola» cui Shakespeare cercava di sottrarre il suo frutto preferito, condannava le piante ad assorbire il bene e il male dall´ambiente in cui vivevano. La sua potenza simbolica per l’autore del Moro di Venezia è tale che, il dono che poi causerà il tragico epilogo della gelosia tra Otello e la sua amata Desdemona, è proprio un fazzoletto con delle fragole ricamate.

La fine delle fragole

Questa naturalezza della fragole, che l’aveva dunque caratterizzata per millenni, viene spazzata via durante il regno del Re Sole. Furono i suoi giardinieri, infatti, a coltivarla, reimpiantando le piantine selvatiche nelle aiuole di Versailles, per il sovrano e le sue dame, e confinarla così a un ruolo tristemente cocotte: durante le feste di corte, affondare il cucchiaino nelle coppe cosparse di zucchero e panna era invito inequivocabile al cavaliere prescelto.

Una simbologia da allora mai sconfessata, tanto che nel film-simbolo dell’erotismo yuppie anni Ottanta, Nove settimane e mezzo, il regista Adrian Lyne mise le fragole al centro di una delle scene topiche tra i due amanti.

Ma per noi le fragole saranno sempre la lacrime appassionate di Venere, e quando le coglieremo ritroveremo nel nostro Mundus Imaginalis l’assenza degli amori passati, che ringrazieremo perché hanno lasciato il posto al palpito di quelli presenti.