Lupi, gatti selvatici, volpi, lepri, qualche capriolo; cavalli, muli e un fottìo di ciucci; vacche, pecore, capre e caproni; uccelli quanti ne volete, anche rapaci, falchi e ciovette; e poi rettili, salamandre, tartarughe, ovviamente il basilisco; insetti a iosa, mosche, zanzare e vespe, ma anche farfalle e libellule; e infine la leggendaria tarantola. La popolazione faunistica in Basilicata è voluminosa e variegata, e ha popolato la regione ancor prima della comparsa del sapiens: terrificanti sauri, enormi elefanti, giganteschi erbivori. Insomma, le terre lucane sono (e sono state) attraversate da milioni di animali. Ma mai dagli sciacalli. Cani, cagnoni e cagnolini, tantissimi. Ma sciacalli mai.

E invece, da qualche tempo, questa nuova specie ha fatto la sua comparsa nel sud della regione. Pronti a scagliarsi sulle prede, i primi esemplari sono stati individuati nei paesi del Metapontino, alle aste fallimentari delle aziende agricole in sofferenza. Arrivano, si guardano intorno, e se non scorgono specie concorrenti, si avventano sulle sventure altrui e s’impossessano di fondi e masserie, colture e macchinari.

È proprio questo fertile territorio agricolo, l’esteso bacino che scivola dall’Appennino lucano fino ad affacciarsi sul Mar Jonio, il loro perimetro di caccia. Un giacimento di ortaggi e frutta, di fantastiche coltivazioni cerealicole, uliveti di pregiata Majatica, filari di Moscato e Moscatello, vacche podoliche al pascolo, peperoni gialli di Senise, melanzane rosse di Rotondella. Il motore naturale che rifornisce di primizie mezza Italia.
Siamo insomma tra i campi di fragole per sempre, verrebbe da dire.

E da qui vi raccontiamo una storia di infamie e prepotenze, indignazioni e resistenze, ritorsioni, incriminazioni e controdenunce.

Come dappertutto, anche nel sud della Basilicata, la crisi economica sta drammaticamente incrinando il tessuto produttivo contadino. La gran parte delle aziende si ritrova in acuta sofferenza: vittime della globalizzazione coatta e di un mercato perverso, che favorisce le grandi concentrazioni e stritola le piccole imprese contadine.

Per reggere l’urto della competizione, fin dagli anni novanta quasi tutti i coltivatori (e non solo in Basilicata) hanno provato a intensificare i ritmi produttivi, con investimenti finanziati da mutui bancari che presto si sono rivelati insostenibili. Al punto da ritrovarsi oggi, nel pieno della recessione, praticamente spossessati dei loro patrimoni. Fagocitati da debiti insolubili e senza alcun sostegno pubblico. Così, uno dopo l’altro, stanno cadendo come birilli, tra fallimenti, liquidazioni e svendite.

E qui interviene il branco di sciacalli. Si presentano alle aste giudiziarie e acquistano per quattro soldi aziende che valgono dieci volte tanto: un’accumulazione assassina, che rischia di ricomporre l’antico latifondo, contro cui nel secolo scorso si consumarono epiche battaglie, con occupazioni di terre, bandiere rosse al vento, scontri con i carabinieri. Ma al di là della palese ingiustizia sociale, dietro quest’esproprio legalizzato traspare un preoccupante sospetto. Accumulare superfici agricole non necessariamente comporta la conferma della loro destinazione produttiva. Non si può escludere che, da qui a qualche tempo, si possano introdurre perniciose varianti urbanistiche, per trasformare in luoghi amorfi, disponibili ad accogliere schifezze d’ogni genere, quelle che un tempo erano fertili piantagioni. E in alcuni casi qualche riconversione è già in corso: per ospitare non meglio precisati depositi, centrali a biomasse, impianti fotovoltaici.

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Ma potrebbe andare perfino peggio. Come molti ricorderanno, proprio in questa zona, a Scanzano Jonico, una decina d’anni fa il governo Berlusconi aveva stabilito che s’insediasse un deposito di scorie nucleari. E non dimentichiamo che in Basilicata, sebbene più a nord, nella Val d’Agri, è in corso un’imponente campagna di estrazione petrolifera: chi può escludere che le coltivazioni di idrocarburi possano estendersi anche verso la costa? Peraltro, un’opportunità prevista dalla devastante deregolazione contenuta nel decreto Sblocca-Italia, che proprio in questi giorni è in discussione in Parlamento.

È insomma una situazione allarmante. Che per un verso rischia di sbriciolare un tessuto produttivo che, seppure a fatica, sostiene un’intera economia d’area, e per l’altro danneggiare irreversibilmente un magnifico territorio, le sue risorse ambientali, il suo valore storico-culturale.

Ma è intorno a questa consapevolezza che si sta sviluppando un forte movimento di opposizione sociale. Guidato in particolare da un sindacato agricolo, Altragricoltura, che proprio da queste parti può contare su un esteso consenso. Di fronte al ripetersi di bandi d’asta, con cui una cricca di avvocaticchi, piccoli finanzieri, padroncini, commercialisti, notabili, faccendieri vari, cordate e filiere di dubbia provenienza s’impossessa di terre su terre, il sindacato ha lanciato un’efficace campagna contro lo sciacallaggio, che ha rapidamente raggiunto ogni angolo del territorio. Un’iniziativa che, oltre a denunciare quanto sta avvenendo, riesce a creare un clima di sostegno e solidarietà verso quelle imprese a rischio di liquidazione. Al punto da intervenire direttamente per contrastare i negoziati che si svolgono durante le aste fallimentari.

Ed è per effetto di questa campagna che, all’inizio dell’anno scorso, un allevatore di bovini, Leonardo Conte, si rifiuta di abbandonare la sua azienda, che nel frattempo era stata acquistata all’asta per ottantamila euro, quando in realtà ne vale almeno cinquecentomila. Per farsi sentire, inizia un lungo sciopero della fame. Intorno al suo caso nasce un ampio movimento di resistenza, con alla testa Altragricoltura e Libera, a cui presto si uniscono il Comune di Tursi e la locale Diocesi e perfino il presidente della Regione Pittella. Conte riesce a non farsi sgomberare per ben quattro volte, ma alla fine, l’estate scorsa, è costretto a capitolare.

Difficile non pensare a uno scatto ritorsivo, quando subito dopo, a fine agosto, scattano misure cautelari nei confronti del leader di Altragricoltura, Gianni Fabbris. La Procura di Matera lo incrimina per vari reati, tra cui nientemeno che estorsione e rapina aggravata: reati che si sarebbero consumati proprio in occasione della varie vertenze contro lo sciacallaggio. Non sfugge l’intento persecutorio dell’iniziativa giudiziaria, peraltro analogo ad altre simili vicende. Come quelle che riguardano gli arresti per terrorismo di militanti no Tav e le incriminazioni e le detenzioni per gli esponenti romani dei movimenti di lotta per la casa. Con similitudini che si possono rintracciare negli stessi capi d’imputazione, reiterati e reinterpretati a seconda delle latitudini.

Per la cronaca, le successive sentenze del giudice preliminare e del tribunale del riesame hanno ridimensionato le accuse per Fabbris, a cui comunque resta l’obbligo di dimora nel suo paese, Policoro. Circostanza che, a sua volta, non gli ha comunque impedito di denunciare per abuso in atti d’ufficio e attività anti-sindacale il procuratore capo.

Ma il contrasto con la magistratura di Matera poggia su ragioni più ampie: sul generale giudizio del fenomeno dello sciacallaggio. Per la Procura, ma anche per la Prefettura, si è di fronte a casi isolati, del tutto trascurabili e, soprattutto, su cui è bene non si faccia troppo rumore. Per il movimento di resistenza, al contrario, siamo di fronte a un processo di penetrazione della criminalità organizzata in un territorio, quello lucano, tradizionalmente risparmiato dal giro d’interessi di cosche, famiglie e ‘ndrine. E i numerosi episodi di rappresaglia contro contadini insolventi, più di sessanta incendi nelle masserie, stanno lì a dimostrare che esiste una ramificazione criminale non proprio irrilevante.

È stata la Commissione parlamentare anti-mafia, indirettamente, a sciogliere i dubbi. I casi di sciacallaggio agricolo in Basilicata hanno infatti suscitato un certo allarme tra i parlamentari. Al punto da promuovere a Matera, nel marzo scorso, un’audizione per meglio comprendere l’origine di un fenomeno tanto esteso. Audizione replicata in giugno, questa volta a Roma. Ma in entrambi gli incontri, nonostante l’insistita denuncia delle associazioni contadine, le autorità locali hanno continuato a parlare di inutili esagerazioni, limitandosi ad ammettere che sì, qualche «focherello» c’è stato, ma in fondo niente di preoccupante. Tuttavia la Commissione sembra non accontentarsi di queste rassicurazioni. E nei prossimi giorni, in un’audizione supplementare, ascolterà proprio Gianni Fabbris.

Al di là delle compiacenze «istituzionali», quel che emerge da questa storia è il grave rischio che sta correndo la Basilicata, considerata la più placida e disponibile regione italiana. Se si smaglia il reticolato sociale della produzione agricola, che finora l’aveva preservata da incursioni e scorribande, potrebbe diventare il prossimo terreno di conquista della criminalità organizzata.