L’apprendimento della grammatica, così rigoroso nella suddivisione dei tempi verbali, ha consolidato il più pericoloso degli equivoci, che il tempo cioè possa essere ripartito in scomparti. Il passato, il presente e il futuro stanno scritti in tre colonne diverse, e conoscere significa saper salire e scendere mnemonicamente lungo quella colonna. Il futuro potrà essere vicino o lontano, il passato più prossimo o più distante nel tempo, e il presente sta lì, con i suoi verbi d’acciaio.
È così che la grammatica ha dato man forte alla più grande delle mistificazioni, che si è poi condensata in una frase divenuta idiomatica: il passato è passato. La conseguenza è stata che l’uomo non ha affatto imparato a vivere il tempo in maniera più confortevole. Ha soltanto chiuso il passato a chiave dentro una porta, pensando che non servisse più occuparsene. Solo che il passato chiuso a chiave si incattivisce, e la conseguenza è quella di ogni cattività: periodicamente sfonda la porta e fa scempio di tutto quello che trova.
È questo uno tra i nuclei di uno dei libri più sorprendenti di questo inizio d’anno. Si intitola Taci, memoria (L’Orma editore, traduzione di Marco Federici Solari, pp. 280, euro 16,00) e l’ha scritto Maxim Biller, autore di lingua tedesca, ma di origini più articolate: figlio di ebrei russi, è nato nel 1960 nell’allora Cecoslovacchia e poi si è trasferito con la famiglia nella Germania occidentale all’indomani della Primavera praghese.
Taci, memoria è un libro unico, prima di tutto perché è un’antologia di racconti curata dallo stesso Biller per i lettori italiani. I testi coprono un arco temporale che va dal 1990 (l’anno dell’esordio con Wenn ich einmal reich und tot bin, che potrebbe essere tradotto Quando sarò ricco e defunto) al 2013, passando per Land der Väter und Verräter o Terra di padri e traditori, del 1994, e per Bernsteintage, uscito in Germania nel 2004, costituendo un vero e proprio corpus, misteriosamente sfuggito all’editoria italiana per ventisei anni. A poche centinaia di chilometri da noi viveva uno degli scrittori palesemente più interessanti tra quelli in attività, e noi lo ignoravamo. Stilisticamente spericolato (la traduzione di Federici Solari è da applauso), il libro è una mescola di cinismo, umorismo ebraico, politicamente scorretto, e di un grande e a tratti persino struggente amore per la fragilità degli sconfitti. Dal ritardo abbiamo però guadagnato la possibilità di tenere dentro un unico sguardo la traiettoria complessiva di un’opera sulla quale di volta in volta avremmo tentato solo congetture.
«Il ricordo, solo e soltanto il ricordo – scrive Biller nel primo dei racconti, Harlem Holocaust – e mai neanche uno straccio di progetto». Il ricordo, la memoria, che cos’è se non una mucchietto di fatti costretti a stare incolonnati dentro lo sgabuzzino del passato remoto? A forzare quella porta sono i figli, in questi racconti di Maxim Biller, di fronte a padri che sembrano avere archiviato una volta per tutte quello che è stato. L’Olocausto, in particolare, i cui spifferi gelano i piedi di chi vive in un tempo successivo. Il sospetto dei figli, sembrano dire i personaggi di Biller, è che a essere state chiuse a chiave nel presente siano le generazioni successive.
Un figlio (Un figlio triste per Pollok) ormai adulto e diventato nel frattempo editore, decide di vendicare il padre rifiutando il manoscritto di un uomo che l’aveva tradito decretandone poi l’espulsione dall’Unione Sovietica. Un altro (in Taci, memoria) cova un implacabile rancore per un genitore che reprimeva i ricordi del passato stipandoli dentro di sé fino al punto da farli scoppiare all’improvviso in spaventatosi accessi di rabbia. Bastava una parola (tschüß, l’informale saluto tedesco di congedo) perché si scoperchiasse il vaso di Pandora. «Ora è il momento della biografia di mio padre – dice il figlio – è tempo di disseppellire le tracce del suo passato, che poi è anche il mio». E si rivolge così a uno psicanalista, un professionista del carotaggio, della discesa dentro i sedimenti del passato. A fare imbestialire i personaggi di Biller è il fatto che chi li ha preceduti non abbia tanto negato il passato, quanto se ne sia appropriato. Che ne abbia fatto bottino, l’abbia tramutato in un’egemonia. Il tempo è di chi lo vive, si giustificano i padri, e noi ne facciamo quel che crediamo. Aprite quella porta, rivendicano i figli, il tempo è un vento, e non lo potete chiudere nella scatola della vostra nostalgia.
Ma i ricordi non sono il passato, e questo è alla fine il grande equivoco che pagina dopo pagina finisce per venire a galla nei racconti di Biller. I ricordi sono appena un secchiello tirato su dal mare del passato. E la biografia di una persona non è altro che il tentativo di disporli in una forma con cui siano in grado di sopravvivere a se stessi. Quando i figli dei racconti di Biller se ne accorgono – acoltando versioni differenti della vita dei propri genitori – sentono la puntura della sconfitta, la gelata del tradimento. Chi viene dopo pretende che chi lo precede sulla linea del tempo mostri tutto ciò che ha nelle sue tasche. Ma non succede. La ritrosia è tanta. Così lo scrittore Warszawski, protagonista di Harlem Holocaust, ebreo polacco sopravvissuto all’Olocausto ed emigrato negli Stati Uniti: Warszawski non sopportava «tutto quel polverone di nostalgia ottenebrata e passatista», odiava le loro «antologie di Rilke, le citazioni di Heine, le riproduzioni di George Grosz, le riunioni settimanali, cui non rinunciavano per niente al mondo, alla Kleine Konditorei sull’Ottantaseiesima Strada dove i taciturni e i mediocri si assiepavano attorno ai linguacciuti e boriosi, la fanteria della terza diaspora raccolta intorno ai goyim Oskar Maria Graf e Bertolt Brecht, dove regnava incontrastato un autocompiaciuto intellettualismo romantico-illuminista». Warszawski è stretto tra l’ideologia del futuro degli Stati Uniti e quella del passato tipicamente europea. Il passato è il masso che sfonderà la schiena del presente. «Cos’è che vuoi da me, papà? Cosa? Dovrei starmene tutto il giorno ad ascoltare le vostre ciance sui nazisti e mandare a memoria la nostra epopea di millenario dolore?».
È in questo irriverente sfondare le porte del tempo la cifra prima dei racconti di Maxim Biller, tra i quali spicca il mimetico Nella testa di Bruno Schulz, racconto di un dialogo impossibile tra l’autore de Le botteghe color cannella e Thomas Mann. Quello di Biller è un mondo di incontri irrealizzabili, in fondo perché ciascuno prende la propria vita, se la porta in un angolo, e lì comincia a rosicchiarla per il tempo che gli rimane.
«Non amo le poesie – scrive in Rose, Aster e chinino – non fanno per me, e tantomeno me ne intendo di poetesse russe bisessuali come Marina Cvetaeva. Per mia madre invece è diverso. Non voglio certo sostenere che viva barricato in un piccolo mondo di giambi, trochei e dattili, ma non posso nemmeno negarlo del tutto». È questo che rende tutti soli, nel mondo sincopato degli ebrei descritti da Maxim Biller. Ciascuno cerca un posto dove barricarsi, dove prendere radici e stabilirsi. C’è chi ci porta dentro dei versi di Cveataeva o Mandel’stam e chi invece si porta dentro i fatti che ha vissuto e poi li trasforma in memoria. La memoria, dice Biller, è forse la più grande ideologia del Ventesimo secolo, ma non ne possiamo fare a meno. È una contraddizione, a volte ha persino il sapore di una truffa. Eppure pensare che si siano tenuti il tempo che ci spetterebbe, forse è l’unico modo per uccidere i padri.