Se si potesse storicizzare il presente, direi che stiamo vivendo uno sconquasso paragonabile alla lunga decadenza dell’Impero romano, soltanto che questa dell’intero Occidente è più veloce.

Del resto le analogie sono numerose, a partire dalla labilità dei confini e dai rimedi messi invano in campo, anche se i Romani erano più civili: allora si cercava di controllare i barbari facendoli entrare nelle legioni o dandogli terreni periferici da colonizzare.

Oggi, a esempio in Italia, li abbandoniamo in centri pomposamente chiamati “di accoglienza”, in realtà ghetti infernali dove migliaia di vite sospese vengono ammassate in condizioni che nemmeno negli allevamenti intensivi dei maiali o nel trasporto via camion dei vitelli che poi mettiamo nei nostri congelatori… E queste sono ancora brioches al confronto con lo sfruttamento schiavistico nelle nostre campagne o con le torture feroci nelle prigioni libiche, sovvenzionate dal nostro governo mentre tutti noi giriamo la testa dall’altra parte per non turbare la nostra sensibilità.

Basterebbero comunque questa ipocrisia, diffusissima soprattutto nel ceto politico che un tempo si definiva di sinistra, a cominciare dall’attuale ministro degli interni, e soprattutto questa mancanza di reazioni collettive davanti al nuovo nazismo generalizzato per confermare una caduta già in atto.

Per questo penso che il pessimismo di Marco Revelli, ribadito anche su queste pagine (il manifesto, 23 marzo), sia molto più concreto e militante di tante supponenti e fatue (nel contesto generale) esortazioni a nuove avventure partitiche destinate inevitabilmente alla subalternità o al piccolo cabotaggio. O dei più scafati inviti a sostenere il meno peggio, con l’improbabile funzione di verme solitario nell’intestino del Pd renziano.

Certo, non è possibile assistere inerti e rassegnati allo scempio delle nostre società, alla miseria crescente, e non solo nelle nostre periferie, al soffocamento di ormai due generazioni, al baratro che si è aperto, su scala mondiale e nazionale, tra i pochi ricchi e i moltissimi men che poveri. Alla precarietà come stato esistenziale generalizzato, all’impossibilità che ciascuno possa aspirare a essere protagonista delle sue scelte. Ma nemmeno possiamo illuderci che gli schemi politici tradizionali siano in grado di guidare o almeno di arginare un cambiamento epocale del mondo (Jaspers parlava di periodi “assiali” per designare quei mutamenti radicali di paradigma che strutturano nel tempo diversi assetti della storia).

Ma che fare mentre la talpa forse scava a nostra insaputa e la civetta non è ancora scesa a illuminarci con la sua sapienza? Come è possibile allargare quel “terzo spazio” di cui parla Bascetta recensendo il saggio di Marsili e Varoufakis (il manifesto, 23 marzo)?

Sarebbe ingenuo e presuntuoso insieme proporre ricette, suggerire tattiche e strategie.

Inutile farsi illusioni: se siamo onesti, con noi stessi innanzi tutto, dovremmo riconoscere la nostra impotenza, individuale e collettiva. Però è possibile, forse, individuare almeno delle fragili linee di resistenza (e questo stesso giornale ne è una prova). Forse più morali che immediatamente politiche, granelli di sabbia nella mutazione globale. Ma i granelli di sabbia possono inceppare anche gli ingranaggi più complessi.

Una volta, anni fa, Eugenio Barba, fondatore e regista dell’Odin Teatret, riferendosi alle varie nuove esperienze teatrali diffuse per il mondo e resistenti tra mille difficoltà, usò la metafora delle zattere galleggianti: gruppi di marinai che navigando autonomamente si mandano segnali nella notte, come i falò che nell’Agamennone di Eschilo di monte in monte annunciano la caduta di Troia.

Mi ha colpito leggere una metafora analoga in un diverso contesto (un capitolo conclusivo che Bodei aggiunge alla nuova edizione del suo Scomposizioni). Parlando dei problemi che la globalizzazione pone anche sul piano etico, Bodei si rifà ai doni che tra isola e isola si scambiavano gli abitanti dell’ arcipelago delle Trobriand, percorrendo su fragili canoe anche centinaia di chilometri di mare aperto. (La pratica è raccontata da Malinowski ne Gli Argonauti del Pacifico e teorizzata poi da Mauss ne La teoria del dono).

Ecco, sembra poco, ma se si riuscisse ad allargare la rete delle tantissime realtà alternative o semplicemente resistenti, in Italia e in Europa; se si mantenessero aperti i canali di comunicazione tra loro, lasciando a ciascuna la propria autonomia e la propria parzialità; se si potesse man mano ricreare una nuova piattaforma generale di principi condivisi (in Italia senz’altro la nostra Costituzione, uscita vittoriosa dalla rozza manomissione renziana) si porrebbero almeno le basi di un nuovo cammino.