Chi scrive ha sempre creduto nella fondamentale importanza della forma-partito e nel suo primato rispetto ad altre modalità di esplicitazione delle soggettività e delle azioni politiche non solo al fine di garantire un corretto funzionamento dei sistemi democratici; ma anche perché senza il partito politico il processo di selezione di una classe dirigente agganciata ad un progetto di governo e cambiamento degli assetti sociali e quello della partecipazione dal basso, rimangono senza punto di contatto. Le tecno-strutture o le élites sociali, intellettuali ed economiche possono assolvere benissimo la prima funzione, persino mantenendosi all’interno del rispetto formale dei vincoli democratici. Il risultato sarebbe tuttavia la riedizione della Power élite analizzata da Charles W. Mills negli anni Cinquanta. A loro volta, i movimenti sociali sono in grado di dar corpo ad esperienze di partecipazione ed elaborazione progettuale altamente significativi, come hanno mostrato le «reti di indignazione e protesta» – come direbbe Manuel Castells – che si sono mobilitate in tutto il mondo occidentale a partire dal 2007. A questi «movimenti-evento» è però finora mancata la capacità di passare dal piano della protesta a quello della proposta, di agire sul piano dell’etica della «responsabilità» oltre su quello della «convinzione».

Tra populismo e tecnocrazia

Il partito di massa ha acquisito, almeno in Europa, piena legittimità solo dopo la Seconda Guerra Mondiale grazie alla strutturale capacità di tenere insieme le due dimensioni in nome di una politica per il popolo, consentendo ai soggetti sociali di farsi attori politici. Il prezzo da pagare è stato il continuo riproporsi di due rischi: la degenerazione burocratico-oligarchica e la compressione delle libertà politiche e di espressione del cittadino (come ricordò più volte, tra i tanti, Simone Weil). Le critiche di oggi si fondano prevalentemente sul primo argomento in nome di due diverse versioni dell’individualismo: quella dei diritti della persona di fronte a poteri oscuri e lontani di cui le classi dirigenti partitiche sarebbe ormai parte; e quella degli interessi violati dell’«individuo produttore e investitore» di fronte all’incapacità tecnica dei politici.

Né le masse né gli intellettuali di avanguardia che si proponevano di organizzarle e di realizzare una sintesi tra partecipazione e costruzione delle classi dirigenti esistono più. Inoltre, tutte le forme di mediazione e integrazione degli attori sociali (dai mass media alle burocrazie) sono investite da un’ondata crescente di disintermediazione dovuta tanto alla comparsa di moltitudini sociali fortemente individualizzate e dalla diffusione dei nuovi media. A partire dall’inizio degli anni Novanta, a questi processi che hanno segnato il declino del partito di massa e la messa in crisi della rappresentanza politica, in Italia si è aggiunta la destrutturazione totale del «sistema partito» che ha allontanato la nostra democrazia dalla fisionomia politica tipica di tutti i paesi europei, istituzionalizzando l’antipolitica. Nello scenario di crisi economica e istituzionale che stiamo vivendo, sballottati tra il martello della moltiplicazione dei plebiscitarismi populisti e l’incudine delle grandi ed incerte alleanze a sfondo neotecnocratico, assume dunque un’urgenza improrogabile chiedersi: «Partiti per chi?» e «Partiti per cosa?»

Vengono qui offerti alcuni spunti di riflessione, utili a rispondere a queste domande, a partire dalle considerazioni critiche ricavate dalla lettura di tre saggi. Oltre alla comune riflessione sul ruolo del partito politico nelle democrazie contemporanee questi volumi partono dalla critica implicita o esplicita al modello del Cartel Party: in breve, un partito composto da fazioni (anche culturalmente diverse tra loro) tutte tese al controllo delle risorse e degli uffici pubblici piuttosto che alla realizzazione di un progetto politico. Categoria analitica messa a fuoco da Katz e Mair negli anni Novanta, il Cartel Party ha rappresentato la forma più diffusa di fuoriuscita dal declino del partito di massa nelle democrazie occidentali, sotto la (falsa) giustificazione della necessità di costruire politiche postideologiche più attente alle esigenze di una (presunta) società dei singoli e dell’amministrazione della cosa pubblica.

La personalizzazione e la surrettizia presidenzializzazione della politica italiana sono espressioni nostrane della logica del Cartel Party. Il volume di Michele Prospero Il partito politico (Carocci, euro 18), pur oscillando in modo incerto tra il piano analitico e quello prescrittivo, costruisce una critica appassionata e per certi versi condivisibile delle forme degenerative cui ha portato questa pratica politica: non si può non essere d’accordo con Prospero che senza organizzazioni solide e radicate mediante le quali dar forma ad una robusta esperienza di partecipazione, la politica democratica (e il riformismo progressista) non possono sussistere. Tuttavia, se rivolgiamo costantemente il nostro sguardo all’indietro e ci priviamo di una solida analisi dei legami tra società e politica, si rischia di non comprendere ciò che sta accadendo: Michele Prospero, infatti, nel momento in cui esalta la grandezza del partito di massa che fu, non riesce a vedere alcuna alternativa reale che non sia la riproposizione di quel modello. Bolla società civile, nuove forme della comunicazione e della partecipazione come processi deboli ed equivoci, incapaci di offrire un contributo positivo alla rifondazione della forma-partito. Evoca il ritorno della militanza ma non affronta il nodo che rende, organizzativamente e politicamente non più proponibili le forme partito novecentesche. Se l’«usato garantito» ormai non cammina più come rivitalizzare i partiti e la formazione della rappresentanza politica?

Radicali e partecipativi

Una via politica è quella suggerita dal saggio di Marco Revelli Finale di partito (Einaudi, già recensito su questo giornale il 21 Febbraio) che si confronta direttamente con i cambiamenti della società post-fordista. Nel saggio Revelli giunge ad intravedere la vera posta in gioco dello scenario attuale: il partito è ormai un soggetto debole il cui destino, il cui evolvere verso forme di maggior coinvolgimento democratico oppure di congelamento nelle forme del Cartel Party, dipende dall’esito del conflitto tra le due grandi macro-forze che segnano oggi la crisi della politica e dello Stato: dall’alto, la potenza dei mass media e dei grandi interessi finanziari; dal basso, l’azione di alcuni movimenti sociali caratterizzati da una logica radicalmente democratico-partecipativa. Solo dall’esito della lotta tra queste due forze e sulla loro capacità di contaminare la forma-partito dipenderà il suo futuro.

Una via istituzionale e costituzionale è invece quella analizzata da Salvatore Bonfiglio nel suo I partiti e la democrazia (il Mulino, euro 9). Dopo aver ricostruito i profili evolutivi della rappresentanza politica nella storia dell’Italia unitaria e ribadito la centralità dei partiti politici nell’impianto della nostra Costituzione, Bonfiglio individua nel deficit di democrazia interna il limite principale delle attuali forme partito che, sin dalla denominazione, appaiono ormai prive tanto dell’aggancio con le grandi correnti politiche e sociali dell’Europa quanto, nella maggior parte dei casi, tutte ripiegate su varie forme di plebiscitarismo.

Patriottismi costituzionali

In questo scenario, occorre ritrovare integrazione interna e capacità di assicurare la partecipazione. Attraverso una tesi che rompe con la tradizionale dottrina giuridica italiana, il costituzionalista suggerisce la necessità di una nuova interpretazione dell’articolo 49 della Costituzione, attraverso l’emanazione di una legge che fissi procedure e modalità di riconoscimento della personalità giuridica dei partiti e i criteri di democraticità cui devono attenersi. Si tratterebbe di un rovesciamento del primato della politica personalizzata sul diritto: un patriottismo costituzionale che penetra all’interno di organizzazioni di per sé prive della capacità di produrre autonomamente partecipazione democratica, anche nella selezione delle classi dirigenti.

Insomma, in tutti e tre i casi appare chiaro un elemento: viviamo in tempi nei quali neanche più le idee e le pratiche estreme di una democrazia plebiscitaria sono in grado di produrre sintesi politiche e selezione di classi dirigenti all’altezza. L’unica strada valida che rimane di fronte a noi è quella di ricostruire forme-partito, dunque di partecipazione e rappresentanza, adeguate alle istanze sociali e politiche emergenti in una società in rete. Quello che, tuttavia, resta da individuare sono i soggetti in grado di promuovere una tale trasformazione.