«Il maggior insegnamento che ho imparato è quello di non irrigidirsi su un’idea precostituita perché segna la morte di qualsiasi spettacolo o film» racconta l’attrice Federica Fracassi, tirando le fila di in un anno che seppur nell’emergenza l’ha vista molto attiva sui palcoscenici. Come è tipico della sua attività, dove una vitalità limpida e travolgente spariglia gli steccati, ha recitato tanto nelle produzioni dello spazio indipendente Teatro i di Milano di cui è co-fondatrice, quanto in grandi realizzazioni come Le sedie di Ionesco dove il ruolo di protagonista femminile le è valso il premio Le Maschere del Teatro Italiano a cui si è aggiunto il Premio Hystrio all’interpretazione. La sua vocazione per un’arte che si interroga sul nostro stare insieme, un «teatro politico» inteso come profonda interrogazione sull’umano si riflette alla perfezione nello spettacolo La febbre, un testo di Wallace Shawn con la regia di Veronica Cruciani, un monologo che la vede in scena al Teatro India di Roma da stasera a domenica.

Credi che ne «La febbre» si esprima una delle possibilità del teatro, ovvero quella di essere un’interrogazione scomoda nei confronti del suo stesso pubblico?

Wallace Shawn ha scritto il testo negli anni ’90 ma è attualissimo, le distanze tra classi sociali sono sempre più grandi e evidenti. Anche interpretandolo lui ha utilizzato un approccio molto frontale e diretto per tutta la durata dello spettacolo, l’ha concepita come una «presa a pugni» dello spettatore, con riferimento a situazioni di incontri culturali e momenti conviviali che riguardano l’Occidente in cui persone benestanti animate da interessi nobili si confrontano. Solo che lì emerge il nodo della questione, ovvero che i privilegi derivano da decisioni che prendiamo quotidianamente e che vanno a scapito di altre persone. L’intento dell’autore è lo stesso che anima me e la regista, ovvero posizionarci sullo stesso piano del pubblico nella messa in questione.

Quest’anno sei stata in scena in produzioni di diverso tipo come «Le sedie», «Variazioni furiose» e «La febbre» appunto. Una delle tue peculiarità è di essere trasversale, recitando nei teatri stabili come negli spazi indipendenti.

Ci provo, credo sia una scommessa anche politica perché è molto semplice venire incasellate mentre a me piace dribblare queste categorie e mettere a dura prova il processo di definizione, anche perché in questo modo sono io stessa a mettermi alla prova e ad imparare molto.

Com’è invece lavorare al cinema? Cambi il tuo approccio o rimane lo stesso?

Cinema e teatro sono sicuramente due linguaggi differenti e bisogna stare concentrati su altre sollecitazioni. La ricerca dell’espressività per me è molto simile, personalmente tendo a cercare un vuoto per far emergere qualcosa, non procedo sommando vezzi o abilità. Parto da una fragilità, un approccio che al cinema funziona perché porta ad una maggiore spontaneità ma credo che anche a teatro può essere una cifra interessante. Poi tutto cambia sempre in base agli artisti che incontri, ad esempio non mi è capitato molto spesso di aprire uno spettacolo rivolgendomi al pubblico come ne La febbre ed è stimolante per me capire come arrivarci, ricorrendo al mio bagaglio passato per la parte performativa, incontrando le richieste uniche di Veronica Cruciani e attingendo a lavori recenti come quello con Valerio Binasco ne Le sedie, declinato molto al presente.

Recentemente hai supportato la campagna dell’associazione Amlet_a che si batte affinché vengano segnalati gli episodi di violenza maschile subiti dalle attrici in ambito lavorativo. Hai condiviso il fatto di non aver mai vissuto episodi di quel genere ma di essere comunque vicina al movimento.

Mi sono chiesta per diverso tempo cosa fare, credo che avere un’esperienza e una visibilità almeno nel mio mondo comporti delle responsabilità e mi sembrava giusto sostenere le tante colleghe che si stanno battendo per una questione importante. Allo stesso tempo volevo raccontare la mia esperienza ovvero il fatto che non tutte per fortuna siamo vittime di violenza, anche perché il rischio è di sfociare in un politically correct con il quale diventa difficile creare. So che è una posizione scomoda, è chiaramente da condannare chiunque operi una violazione, tanto nel corpo quanto nella psiche, nei confronti di una donna o di una qualsiasi minoranza. D’altra parte rimane vero che c’è una libertà nell’arte di utilizzare il corpo, di denudarlo o di ferirlo come nella body art. Rispetto molto ciò che sta facendo Amlet_a e volevo manifestarlo ma volevo anche dire ciò che è successo a me, ovvero nulla, anche se capita invece molto spesso che a causa della forte competizione diverse persone provano a metterti in un angolo e a svalutarti.