Questa settantesima edizione del festival di Sanremo non sarà ricordata per i siparietti salvifici di Fiorello pro Amadeus, né per Albano che ruba la scena alla figlia Romina «junior» autopresentando la propria canzone (ah, questi padri che non vogliono mai farsi da parte), nemmeno per Tiziano Ferro che ha fatto rimpiangere Mia Martini stonando sull’indimenticabile Almeno tu nell’universo. Questo festival verrà ricordato per il monologo di Rula Jebreal e, per i prossimi vent’anni, per la tutina nude-look di Achille Lauro.

Non accosto queste due immagini agli antipodi per irriverenza, ma perché il festival è fatto così, un minestrone dove tutto si mescola, sponsor, canzoni, sentimentalismo, polemiche, abiti, ammiccamenti, lacrimucce e, ormai in assenza dei politici che al festival non si fanno più vedere, le aziendalissime inquadrature ai dirigenti Rai seduti in prima fila, fra cui spicca il neodirettore di Rai1 Stefano Coletta in perfetta espressione marmoreo cardinalizia, tipica di chi non vuol far capire ciò che pensa davvero perché è solo così che si resiste a lungo in un posto come la Rai.

Rula Jebreal era attesa perché avrebbe parlato della violenza sulle donne, ma nessuno si aspettava che avrebbe tirato fuori la sua storia personale. Partita un po’ ingessata, quando si è capito che dai concetti generali, dai numeri delle statistiche passava a raccontare qualcosa che la riguardava da vicino, il registro è cambiato e anche i colpi di tosse in sala sono scomparsi. Rula e l’orfanotrofio in cui è cresciuta, la storia della madre suicidatasi dandosi fuoco quando lei aveva 5 anni, una madre che voleva liberarsi di quel corpo che era stato la causa del suo dolore, un corpo brutalizzato due volte, a 13 anni da un uomo che l’aveva stuprata, poi da un sistema che le aveva impedito di denunciare, e lo stupratore era accanto a lei quando si diede fuoco, perché aveva le chiavi di casa.

Quando una donna prende parola e racconta il suo vissuto, senza atteggiarsi a vittima, ma dispiegando i semplici fatti, la forza di quelle parole diventa dirompente e poco importa se chi la dice è famosa o no, bella o no, vestita di lustrini o no, se è sul palco di Sanremo o no. È lì, dura, vera e prende valore proprio perché viene detta. Rula Jebreal ha fatto capire quanto può essere forte una testimonianza scacciando il rischio di diventare una semplice testimonial dei buoni sentimenti che Sanremo è bravissimo a mettere in scena per lavarsi la coscienza.

Passando alle facezie, vorrei chiudere con Achille Lauro e il suo look assolutamente adorabile. Non è mica da tutti presentarsi scalzo, pallido come un morto, con un mantello tipo Nosferatu e, mentre canti «Me ne frego, me ne frego», slacci la cappa e resti in costume da bagno tipo anni Venti, ma di tulle color carne e lustrini, con il corpo disseminato di tatuaggi, neanche fossero le frecce di San Sebastiano. Però un consiglio lo voglio dare ad Achille.

La prossima volta stai attento alle mutande, chè sotto una mise del genere non si possono sbagliare. Le tue avevano l’elastico troppo stretto e da dietro producevano piccoli rotoli di ciccia non adeguati all’insieme. Dai retta, quando si tratta di nude look coi lustrini chiedi un consiglio a una costumista di Cinecittà, oppure a Sabrina Ferilli che una tuta simile l’ha indossata ne La grande bellezza. L’aveva comprata e mai messa, nemmeno lei osava tanto. Quando Paolo Sorrentino andò a sfrucugliare nel suo armadio per trovare ‘na cosuccia da farle indossare in una scena, vide la tutina e disse «È lei». Ora sarà difficile anche per te superarti, caro Achille.