Quando Resident Evil Village fu annunciato pensai ad uno scherzo mal riuscito, malgrado il fascino horror di panorami e mostri. Non credevo possibile, pur trattandosi dei reami di un relativo impossibile, che il protagonista di quest’ottavo Resident Evil fosse ancora Ethan Winters, un «uomo qualunque» che nel settimo episodio finisce nella magione putrida di una famiglia di assassini mutanti più orripilante e molesta di quelle dirette da Tobe Hooper e da Wes Craven. Il ritorno di Ethan mi apparve troppo artificioso, surreale, persino di cattivo gusto anche per una saga horror che non deve la sua fama al valore letterario delle sceneggiature, sebbene queste contengano ispirate, forse talvolta involontarie, allegorie e corrispondenze con il presente, vi sia una critica contro un sistema capitalistico-militare senza dubbio efficace e risultino funzionali, talvolta in modi egregi, al contesto ludico per il quale sono scritte. L’importanza diegetica del personaggio Winters nel settimo capitolo risiedeva proprio nella sua «normalità» dopo anni di protagonisti al limite del super-eroismo, una rottura con il passato amplificata dal passaggio dalla terza alla prima persona, uno sguardo in soggettiva che avvicinava il giocatore al protagonista in maniera addirittura drastica con il visore per la realtà virtuale.
L’arco narrativo di Ethan avrebbe dovuto finire quindi in Louisiana, una piccola storia ignobile per cominciare la prossima volta qualcosa di diverso, ma eccolo tornare nell’ottavo capitolo, traslocato nell’Europa dell’Est, addestrato dai militari, accompagnato dalla moglie ritrovata e dalla figlia neonata, ancora una volta pronto all’inevitabile orrore.

TUTTAVIA CAMBIAI idea quando mesi dopo il primo trailer cominciai a giocare Resident Evil Village sulla Playstation 5 (c’è anche per la famiglia Xbox, ps4 e pc), non solo perché la visuale in soggettiva ristabilisce quel trascorso legame con il personaggio ma per il preludio fiabesco del videogame, bello e oscuro come qualcosa del migliore Tim Burton. Si tratta di una favola illustrata da tetre animazioni che la madre narra alla figlioletta, troppo macabra e incomprensibile per una neonata, ma ideale per sospendere l’incredulità del giocatore, per convincermi che Ethan sono ancora io, personaggio volontario di una fiaba nera che sta per scatenarsi e che risulterà ancora più efficace se alimentata dai ricordi e dalle emozioni ritrovate dal settimo episodio. La fiaba diviene tramite, diviene chiave, corrode lo scetticismo.
Sono dunque spettatore e attore di una storia diversa, nei toni e nei registri dell’orrore, una narrazione del terrore la cui differenza con il passato è amplificata dalla presenza di uno stesso protagonista che trascorre, con una dissolvenza magistrale, da un horror sulla scia di Texas Chainsaw Massacre e The Hills have Eyes a quello gotico del Poe di Corman, a quello ancestrale dei film Universal, passando per Jesus Franco e Jean Rollin fino a tornare a Resident Evil nella sua forma primordiale. Dal settimo all’ottavo episodio, tramite Ethan Winters, attraverso variazioni, deviazioni, negazioni e restaurazioni, infine Resident Evil parebbe tornare a viaggiare su binari più convenzionali, ma non è così, perché la convenzione è mutata drasticamente dalla deriva della quale siamo stati testimoni. Quindi ben tornato Ethan, ben tornato Resident Evil, ancora così mostruoso, di nuovo stupefacente grazie agli stadi attraverso i quali, solo verso la conclusione, è riportato alle origini ed è connesso con efficacia alla sua storia.
Trascorriamo dal maniero gotico della felliniana, travolgente vampira Alcina Dimitrescu dall’orribile sensualità agli spazi di un orrore impotente e psicologico nella villa Bienevento con le sue bambole assassine e i suoi feti abominevoli, dalle paludi di laghi prosciugati abitati da mutazioni ittiche a fabbriche di orrori ibridi e metallici alla Tsukamoto; tornando ad attraversare, ogni volta, gli spazi innevati del villaggio annichilito dalla morte, luogo di transizione verso altre dimensioni dell’orrore. Cambia il modo di giocare, sempre, dall’ansia della sopravvivenza all’impossibilità di combattere fino all’onnipotenza dello sparatutto, ad un certo pilotiamo addirittura una sorta di «mecha».

INFINE la conclusione, estesa, sorprendente, come il ritorno di un dimenticato tema principale dopo le tempeste di un complesso sviluppo sinfonico, una musica che pur risuonando quasi identica non sarà mai più la stessa.
Degno di memoria è il bestiario, senza i «classici» zombie (tranne uno!) ma ricchissimo di ogni abominio, rielaborazione ispirata degli archetipi dell’orrore descritti da Stephen King in Danse Macabre: cose senza nome, vampiri, licantropi.
Da giocare con le cuffie, al buio, orripilati, atterriti e divertiti dalle sue innumerevoli tinte del terrore, Resident Evil Village è un’avventura horror grand-guignolesca e spettacolare, dove in gioco non è solo la sopravvivenza del giocatore ma il passato e il futuro della saga di Capcom da anni ormai orfana del suo inventore, Shinji Mikami. La lotta di Ethan e di chi lo controlla è soprattutto contro il fantasma di Resident Evil, inteso nella sua grandezza e nella sua crudeltà venticinquennale, un non-morto terribile che infine vince, sconfiggendoci e dimostrando il suo mostruoso, imperituro splendore anche al più scettico e annoiato, straziandolo e al contempo deliziandolo con i suoi ancestrali spauracchi.