A volte le lettere trasmettono la ‘voce’ mentale di un poeta più chiaramente delle sue opere. Accade, in particolare, per Vittorio Sereni: si ha l’impressione, o l’illusione, che le situazioni e i dialoghi delle poesie entrino in risonanza con il suo epistolario, ne proseguano il discorso. Non è una questione di autenticità o di utilità: i carteggi di Sereni sono preziosi per commentare i suoi libri, certo, ma non più di quanto accada per altri autori novecenteschi. Il punto è che Sereni scrive le poesie come scrive le lettere, con la stessa postura e il medesimo pathos della ferialità. Per fortuna, abbiamo molte occasioni per ascoltare quella ‘voce’: dal centenario della nascita (2013) a oggi sono stati pubblicati i carteggi con Anceschi, Bodini, Gallo, Luzi, Ungaretti, che si sommano tra gli altri a quelli con Bertolucci, Parronchi, Saba usciti in precedenza. Un nuovo volume si aggiunge ora alla serie: Vittorio Sereni-Carlo Betocchi, Un uomo fratello Carteggio (1937-1982) (Mimesis, pp. 248, euro 24,00). Clelia Martignoni firma il saggio introduttivo, mentre l’edizione e il commento, ampio e preciso, sono curati da Bianca Bianchi, già redattrice dell’Almanacco «La Rotonda», diretto dallo stesso Sereni con Piero Chiara. I materiali, conservati a Luino nell’Archivio Sereni, comprendono 172 documenti, tra i quali 150 lettere, per lo più manoscritte, la maggior parte delle quali ha per mittente Betocchi. Anche per questo, Un uomo fratello è un libro che parla di Betocchi almeno quanto parla di Sereni, sebbene il primo, per attitudine all’umiltà, finisca per assumere un ruolo tra il maieutico e l’ausiliario nei confronti del secondo. Tra le qualità di Betocchi c’è infatti la capacità di intuire gli esiti della poesia di Sereni e di trovare i giusti toni per incoraggiarlo o interpellarlo; a volte perfino per rimproverarlo, come in una lettera della fine del 1955: «Non mi dare dispiaceri. Fai l’uomo, smetti di ricoverarti dietro tante timidezze».

Milano-Firenze, crescente distanza
L’estensione cronologica del carteggio permette di seguire la vita e l’opera dei due autori nell’arco di un mezzo secolo denso di cambiamenti. Nell’esistenza di Sereni s’inanellano la prigionia, la famiglia, gli onori e gli oneri del lavoro editoriale (cui spesso queste lettere alludono); in quella di Betocchi, le trasferte e la fede perduta dopo la malattia e la morte della moglie. Per entrambi conta e resiste la scrittura, mentre le trasformazioni della società italiana lasciano segni profondi su uomini e libri. Di anno in anno, attraverso le parole e le idee condivise dai due amici, si percepisce ad esempio la crescente distanza tra la Firenze di Betocchi, capitale di una cultura primonovecentesca in esaurimento, e la Milano industriale di Sereni, necessaria alla maturazione dei suoi grandi libri, anche se non sempre amata. «E del resto se mi guardo attorno, che cosa dà più Milano?», scrive Sereni in una lettera del luglio ’54; e prosegue: «Sì, qualche amicizia davvero cara e di cui ho bisogno; ma per il resto pagliacciata e commercio anche di quelle poche ragioni che una volta ci facevano vivi».
All’anagrafe, poco meno di una generazione separava Betocchi (nato nel 1899) da Sereni (nato nel 1913): «In fondo io sono ancora uno, quanto a spirito e conoscenza del mondo, uno del primo ventennio del secolo», scrive Betocchi nell’ottobre del 1980. In effetti, le prime lettere, risalenti all’estate del ’37, tradiscono ancora una certa asimmetria dei ruoli: Betocchi è un poeta già noto (Realtà vince il sogno era uscito nel 1932), Sereni un esordiente. Il carteggio prende spunto proprio dalla pubblicazione dei primi versi sereniani sul «Frontespizio», la rivista fiorentina fondata da Bargellini, per la quale Betocchi curava la rassegna poetica. Fin dall’inizio, però, il tenore delle lettere è tale da ridurre le distanze: «Caro Sereni / Mi compiaccio con Lei per la sua buona volontà; mi dolgo per quel che di meno sereno ha potuto turbarlo nella cerchia dei suoi amici, che sono anche i miei, che si amano poeti». Non è un caso se tra le parole ricorrenti nel carteggio, quasi come un suo Leitmotiv, risalta l’aggettivo ‘umano’, che qualificherà il titolo del libro più importante di Sereni, Gli strumenti umani (per il quale l’autore aveva pensato anche a un’alternativa, Teatro di parole, di ascendenza betocchiana). Del resto, è proprio in una lettera all’amico (4 luglio ’54) che si riconosce l’occasione di partenza più tardi rielaborata da Sereni nella poesia Il muro degli Strumenti: «Vorrei raccontarti d’una sera che andai a vedere un torneo notturno di calcio proprio dietro la chiesa del cimitero e si levò una specie di bufera con lampi e gran polvere».
Quanto all’‘età’ letteraria, i due poeti si consideravano coetanei. Betocchi, convinto della prossimità fra gli autori della cosiddetta terza generazione (in particolare Sereni, Caproni e Luzi), si sentiva più vicino a loro che non a Montale e Ungaretti. È su questa base che, ne primi anni cinquanta, insiste (invano) con Sereni perché gli dia una raccolta delle sue poesie da pubblicare per Vallecchi: «Da una conversazione lunga, fatta ieri sera con Luzi che si è convinto – scrive Betocchi il 3 aprile 1953 – emergevano altre ragioni, per tutti, richiedenti la raccolta in volume, la presentazione compatta in catalogo, e l’uscita poco dopo distanziata delle poesie di Luzi, Sereni, Caproni, Parronchi, Betocchi». L’opportunità di allineare questi autori, fra i quali Betocchi s’include, dipendeva tanto dalla volontà di superare la categoria di ‘ermetismo’ per un «nucleo di poeti, che ha carattere assai compatto di nascita e d’interessi»; quanto dall’esigenza di «presentare la poesia soprattutto dei primi fra i poeti nominati per quello che è realmente, l’unico punto stabile di necessario passaggio dagli Ungaretti Montale ai poeti futuri».

Il problema della linea lombarda
Irriducibile all’ermetismo, Sereni si sottrae anche ad altre forzate assimilazioni: come osserva giustamente Martignoni nell’introduzione, «l’elogio “lombardo” di Betocchi» è un’«altra cosa rispetto all’angusta chiusura nella “linea lombarda” prospettata a suo tempo nell’antologia omonima». Il riferimento è a uno scambio avvenuto tra il marzo e l’aprile del ’58. «Quando sei lombardo – aveva scritto Betocchi – sei della migliore stirpe per interpretare la modernità della storia». «Dalle tue parole – risponde Sereni – sono quasi indotto a pensare che dal poco di nuovo che ho messo fuori vada facendosi strada quel tanto, non più di lombardo, ma di milanese addirittura con cui lotto ogni giorno, non per sopprimerlo ma per ridurlo a ispirazione». È quasi una sintesi della poetica che di lì a pochi anni si compirà negli Strumenti umani. «Nella sua disperazione», quel libro rappresenta, secondo Betocchi, «la giustificazione più intensa» di tutta la storia di Sereni (23 ottobre ’65). La lettera «mette il dito nella piaga», risponde l’autore pochi giorni dopo (31 ottobre), perché lo «raggiunge più nel segreto», con tutte le «vergogne scoperte». Il nuovo libro è poco congeniale a Betocchi, che in una lettera a Caproni – lo ricordano Bianchi nel commento e Martignoni nell’introduzione – confessa di preferire le opere precedenti alla «poesia Milano-Industria».
Ha ragione Sereni allora quando, nell’articolo sugli Strumenti scritto da Betocchi per il «Giornale d’Italia», legge «un’insoddisfazione e un rammarico, non di ordine critico-estetico, ma umano e morale», una sorta di «nostalgia» per com’era o appariva «una volta» (lettera del 5 aprile ’66). È il tratto in cui il carteggio diventa più acuto, ma non polemico o recriminatorio. Tant’è vero che l’attenzione e la comprensione non vengono meno. Betocchi prevede ad esempio l’importanza che Char, tradotto da Sereni, avrà anche per la poesia dell’amico: un lavoro – gli scrive in una lettera del novembre ’74 – «che, penso, ti sarà fonte di altro tuo lavoro personale». E così sarà: quel «lavoro personale» si realizza nella sezione quarta (Traducevo Char) dell’ultima raccolta sereniana, Stella variabile. La lettera finale del carteggio, datata 6 febbraio 1982, si chiude proprio sui «rinnovati rallegramenti» per l’uscita di quella raccolta. Tempo un anno e Sereni, l’«uomo fratello» (così ‘battezzato’ in una lettera del maggio ’48), muore nella sua casa di Milano. Betocchi gli sopravvive fino al 1986, quasi cinquant’anni dopo la sua presentazione delle prime poesie sereniane nel «Frontespizio».