Alla settima edizione il Festival di Musica Contemporanea Italiana – rigorosamente italiani compositori e interpreti, ma lontano da qui, cioè dall’ambiente fervido di Area Sismica di Forlì, ogni nazionalismo: solo curiosità documentaria – cambia formula. Ne escogita una godibile. Vari interpreti con mezzora a disposizione per ciascuno, tutto di seguito tranne una pausa di un’ora a metà giornata. Il direttore artistico è, come sempre, Fabrizio Ottaviucci, lui pure sommo interprete (al pianoforte) e straordinario professore-intrattenitore nella lezione «Dal gregoriano a Stockhausen e oltre» tenuta il giorno prima a una folla straripante di studenti e professori.

Ottaviucci sceglie gli interpreti, loro scelgono i programmi. Entusiasmo per il set di Anna D’Errico, pianista. A questa concertista minuta non manca una forza fisica da sollevatrice di pesi quando effettua sulla tastiera le ben calibrate aggressioni di Francesco Pavan (Tremulo verso lo svolto, 2007). Autore tempestoso, un Liszt dell’oggi radicale. Che però costruisce il brano, pur tra le improvvise esplosioni, con una consequenzialità ferrea. In questo si aggancia paradossalmente alla tradizione.
Niente tradizione di nessun tipo nel mirabile A landscape in my hands (2017) di Daniela Terranova. Un lungo inizio di suoni «grattati» sulle corde, bei giochi tenui e metafisici, poi accordi dissonantissimi in progressione verso l’acuto della tastiera, poi alternarsi di suoni effettivi e suoni «muti» in libera associazione di fulminee idee. Insomma una elegante leggera gestualità aggiunta.

Sempre nel concerto di D’Errico si ammira il coraggio di Franco Oppo (Tre berceuses, 1980-’81) nel ripensare un impressionismo grazioso, però con una sottigliezza modernista davvero squisita. Quanto a Stefano Gervasoni (tre brani dal ciclo Prés, 2008-2015), è un maestro e si sente. Qui si vorrebbe amare il suo edonismo serio, molto classico, anche troppo. Ma la mezzora di D’Errico elettrizza, coinvolge, diverte. E lei è superlativa.
Enrico Malatesta è un percussionista. Propone Belabor (2017), lavoro suo con probabili parti di improvvisazione. Lo definiremo concettuale. Usa a lungo un solo piatto e una sola bacchetta per sollecitare con moti rotatori le superfici di un rullante e di un antico tamburo eritreo. Fa sua una sorta di poetica dell’indifferenza, della metodica reiterazione, a parte un episodio tribale-jazz sul rullante tipo iper-iper-Gene Krupa. Un tipo di musica d’uso, la sua, che sembra uscire da una privata officina.

Il violoncellista con attitudini piacevoli da star Michele Marco Rossi regala uno strepitoso Ivan Fedele. Ci ricordavamo un Fedele passato certo magistrale, sapientissimo costruttore, ma un po’ distante, un po’ di scuola (per quanto eccellente e radicale), qui in Threnos/Hommagesquisse (2016) lo troviamo carico emozionalmente. Sciabolate di suoni e balenanti melodie di sapore «esotico».
Carlo Siega è chitarrista elettrico. Suona tre pezzi tutti in qualche modo influenzati dal mondo rock e dintorni. Nel celebre, grandissimo, Trash TV trance (2002) di Fausto Romitelli c’è noise, hard rock, rave. Siega lo suona al calor bianco e con qualche effettismo di troppo, tanto da far perdere la trama di suoni estremi del brano. Ha il vantaggio suggestivo di suonarlo «come un monolite», osserva Ariele Monti, l’animatore di Area Sismica. Comunque il clima del festival si accende. Bellissimi i profondi rimbombi tenuti, quasi da basso elettrico, in Cratere (2014) di Lorenzo Troiani. Gran senso dell’architettura in Sottotraccia (2014-’15) di Giorgio Colombo Taccani. Che il rock e (chissà) Jimi Hendrix ce li ha in mente, eccome. I suoni «stirati», le distorsioni! Trionfo.