«Chissà se Dio ha creato una fanciulla di radiosa beltà, con un corpo candido al pari di questo marmo, i capelli neri come codesti corvi e le guance rosse quanto il loro sangue…». Nonostante le apparenze, questa frase non introduce una delle tante versioni europee di Biancaneve, bensì la «Storia di Sulayman ibn Abd al-Malik ibn Marwân», uno dei trentasette racconti della raccolta medievale delle Cento e una notte, che Einaudi pubblica ora nella NUE, nella redazione stabilita e curata da Claudia Ott (tradotta in italiano da Isabella Amico di Meane e a cura di Elisabetta Benigni (pp. XLIV – 314, euro  32,00). Non è, peraltro, la sola sorpresa che questo testo riserva a chi vi cerchi null’altro che un’antologia delle esotiche e sterminate Mille e una notte.

Le due raccolte condividono una posizione ostentatamente ambigua tra lo scrivere e il narrare. Si sa quanto sia spesso sottile il discrimine che separa il mondo dell’oralità da quello della scrittura. Ancora prima della rivoluzione digitale, un tipico territorio di frontiera tra i due mondi era proprio quello della messa per iscritto di racconti tradizionali. Fin dalla più antica resa letteraria di una fiaba, Amore e Psiche di Apuleio, il testo, riportato nel romanzo delle Metamorfosi, è esplicitamente inserito in una cornice di narrazione (una vecchina che deve intrattenere e tranquillizzare una povera fanciulla rapita).

Allo stesso modo, è tipica anche di molte raccolte di racconti medievali una «cornice» che, mettendo in scena narratore, uditorio, circostanze e scopi della performance, ricrea nello scritto quel contesto di oralità al cui interno per secoli si erano tramandati i testi destinati ormai ad essere «letti» e non più «narrati».

Non sfugge alla sorte questa «sorella minore» delle più note Mille e una notte, il cui contesto vede sempre come narratrice Shahrazad, che, per tener desto l’interesse di un collerico sovrano e rimandare la propria uccisione, si produce in un «serial» di centouno puntate per un totale di trentasette racconti completi. Per quanto il termine «serial» possa apparire fuori luogo, occorre pensare tuttavia che nella cultura in cui quest’opera è stata elaborata, i racconti – narrati da professionisti della memoria o letti su un manoscritto – costituivano uno dei pochi mezzi di svago, soprattutto serale, quando il buio impediva qualunque attività all’aperto, e adempivano di fatto a quella funzione di intrattenimento che oggi viene svolta dalla televisione. Il mondo dell’oralità è così compenetrato nell’opera che, a sua volta, lo stesso testo-cornice richiede un «narratore», e infatti il libro si apre con le parole «Colui che tramanda questa storia narra…».

Un narratore anonimo il cui nome viene svelato a partire dalla seconda notte: «Così parla Faharâyis, il filosofo…». In questo gioco di rappresentazione nella rappresentazione rimane incerto se Faharâyis sia il nome di colui che ha costituito la raccolta o, a sua volta, un personaggio del racconto. Se non bastasse, l’effetto di mise en abyme è ulteriormente amplificato dalla serie di racconti annidati all’interno della storia «dei sette visir», ciascuno dei quali assume il ruolo di narratore.

Il fatto di ritrovare elementi a noi familiari non dipende solo dal caso o dall’universalità di certi temi, ma è anche legato all’origine geografica delle Cento e una notte. Il manoscritto principale, che contiene anche un trattato di geografia, prodigo di descrizioni di prodotti esotici e curiosità adatte al diletto di committenti desiderosi di distrarsi con narrazioni favolose, è del 1234-1235 e proviene dalla Spagna musulmana (al-Andalus). Oltre alla localizzazione nordafricana degli altri manoscritti conosciuti, diversi elementi interni al testo lasciano capire che, probabilmente, anche la composizione è avvenuta in Nordafrica o al-Andalus, in quell’occidente islamico a noi più familiare rispetto alla Persia o al lontano oriente da cui provengono le Mille e una notte.

La curatrice tedesca richiama, e non per sfoggio di erudizione, episodi dell’Orlando furioso, che proprio a questo testo sembrano rimandare, confermando il ruolo di ponte tra la cultura islamica e quella europea svolto dalla penisola iberica nei molti secoli che precedettero la Reconquista. Ma al di là degli episodi letterari, anche diversi elementi culturali presenti nel testo rimandano al mondo nordafricano, ad esempio i granai sotterranei tipici del sud tunisino, o la frequente apparizione di uomini che si velano il volto (i mulatthamûn, antenati degli odierni tuareg).

Perfino gli automi e le macchine volanti, che costituiscono un elemento fantastico all’interno dei racconti, forse non apparivano così irrealizzabili là dove l’inventore berbero-andaluso Ibn Firnas, già nel nono secolo, aveva realizzato molteplici macchinari e si era spinto a effettuare il primo tentativo di volo planato. Data questa origine geograficamente prossima, per il lettore europeo contemporaneo, è interessante scoprire, man mano che ci si inoltra nella lettura, spunti e immagini che si riallacciano a esperienze a lui non del tutto estranee. Le stesse allusioni all’Oriente mitico e misterioso, ovviamente frequenti nel racconto fiabesco, sembrano prodotte da un ambiente che a tale oriente si sentiva estraneo, al punto di idealizzarlo come poi fece in Europa la cultura «orientalista».

Come vuole la tradizione del racconto orale, accanto ai fini di intrattenimento c’è spesso un intento pedagogico. Un dato abbastanza caratteristico degli ammaestramenti che costellano le narrazioni (peraltro comune a tanti testi europei dell’epoca) è la misoginia che non lesina esempi di vizi e difetti, a cominciare dalla serie di tradimenti che originano la storia-cornice principale. Luoghi comuni peraltro controbilanciati dall’inusitato numero di eroine dei racconti, non di rado rappresentate come valorose al pari se non più degli uomini. La«morale» viene a volte espressa in modo esplicito e sintetico tramite brevi massime come: «l’uomo peggiore è colui che meno ha appreso» o «solo se la scienza raggiunge il cuore, il suo effetto si ripercuote sull’intera persona», talvolta invece è implicita ma evidente, per esempio quando un saggio visir dimostra come una sola goccia di miele, in un ambiente troppo suscettibile e impulsivo, possa dare il via a una serie di eventi a catena,che sfociano nella guerra e nell’annientamento reciproco di due villaggi. Ancora attuale, questo racconto meriterebbe di essere letto e rimeditato dai vivaci e litigiosi abitanti dell’odierna al-Andalus.