Non di rado i titoli dei libri mentono: è il caso di Musica e trance I rapporti fra la musica e i fenomeni di possessione di Gilbert Rouget (in una nuova edizione condotta su quella francese del 1990, largamente rivista e ampliata, traduzione di Giuseppe Mongelli, Vincenzo Della Ratta, Blanche Lacoste, introduzione di Francesco Giannattasio, Einaudi, pp. 488, e 30,00) un classico della etnomusicologia, sulla scia del magistero di André Schaeffner e di Constantin Brailoiu. Fin dalla sua prima edizione in francese, il titolo risulta fuorviante perché sembra assecondare l’ipotesi, così radicata nel nostro immaginario, che tra la musica e gli stati di coscienza, tra i suoni e il pathos, tra il ritmo e la vita psichica ci sia un rapporto diretto, privilegiato, una immediata risonanza, tale da giustificare la stretta parentela che l’arte dei suoni avrebbe con i fenomeni di possessione e di trance in tutte le culture e in tutti i tempi.

Luoghi comuni a parte
È un’ipotesi a cui siamo affezionati ancora oggi, al punto che l’estetica musicale di area anglo-americana, negli ultimi anni, ha dedicato largo spazio al rapporto musica-emozioni e non ha disdegnato, in alcuni discussi casi, di giustificarlo sulla base di una teoria dell’arousal, ovvero della eccitazione. La musica agirebbe direttamente sullo psichismo come una droga o come il sidro sui processi digestivi, inducendo, su base fisiologica, una condizione di intensa allerta sensoriale. Niente di tutto questo, tuttavia, si trova nel libro di Rouget.
Se la musica avesse questo potere, ci avverte icasticamente l’autore, «metà dell’Africa sarebbe in trance dall’inizio alla fine dell’anno», grazie all’uso pervasivo di tambureggiamenti e ritmi percussivi che assai frettolosamente vengono associati alla capacità di scatenare il driving psicomotorio attraverso una sorta di trascinamento sonoro. E metà della Grecia antica sarebbe stata in uno stato di alterazione e possessione, grazie alla diffusione del modo frigio ritenuto, a torto, unico responsabile dello strano meccanismo che induce alla mania.
Buona parte degli sforzi di Rouget sono impegnati nel tentativo di mobilitare questi luoghi comuni per ridimensionarne la portata, dimostrando l’infondatezza scientifica della tesi che, a partire dagli anni Sessanta, in particolare con i lavori di Andrew Neher, postulava una corrispondenza tra stimoli sonori intermittenti e fenomeni di trascinamento (driving) di alcuni ritmi del cervello (precisamente il ritmo theta), capaci di generare convulsioni. A queste sperimentazioni di laboratorio, condotte prevalentemente sul suono del tamburo, Rouget muove sostanzialmente tre obiezioni: gli stimoli sonori utilizzati in laboratorio, monotoni ed omogenei, hanno ben poco in comune con l’estrema variabilità degli stimoli percussivi nelle sedute di possessione; i loro effetti sono riducibili a fenomeni semplici di movimenti oculari o blefarospasmi niente affatto paragonabili agli stati psichici complessi indotti dai riti di possessione; i parametri sonori utilizzati coprono tutto il ventaglio dei tempi, dal moderato al prestissimo, così che dovremmo aspettarci da ogni tambureggiamento l’innesco del driving. Cosa che, evidentemente, non accade.

Il valore di segno
Qual è, allora, secondo Rouget, il rapporto che lega musica e trance nel candomblé brasiliano o nel culto africano degli orisha o nel caso dello sciamanismo o nella mania telestica presso la Grecia antica? La risposta ci viene suggerita da Francesco Giannattasio nella sua bella introduzione: salvo alcune eccezioni (ad esempio nell’uso della respirazione forzata nei rituali di alcune confraternite mistiche musulmane), in generale nei riti di possessione, «la musica non ha in sé il potere fisiologico di scatenare stati alterati di coscienza». Viene utilizzata, piuttosto, per manipolare la trance, per socializzarla. Dire che la musica non ha in sé questo potere, non significa misconoscere il suo ruolo nel fenomeno della trance, significa invece spostare questo effetto sul registro simbolico: la musica è capace di esaltare il coinvolgimento psicofisico in quanto è un segno, in quanto assume la forma di quella che Rouget definisce «divisa sonora», vale a dire una combinazione di melodia, ritmo e parola ad alto valore rappresentativo . Ed è su questo registro che Rouget può condurre i suoi studi tassonomici, le sue analisi strutturali, raffinatamente diversificate, nel tentativo di avvicinare l’estrema variabilità delle pratiche rituali.