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Fra dischi e libri storia disincantata di una giovinezza

Fra dischi e libri storia disincantata di una giovinezza

Libri Il nuovo romanzo di Umberto Rossi è il racconto di un’adolescenza con le sue luci e le sue ombre

Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 30 luglio 2024

Quello antropologico e linguistico è uno degli aspetti più importanti di un buon romanzo. È soprattutto grazie all’attenzione rivolta a un preciso universo storico e sociale, e alla specificità della sua lingua, che la narrativa può restituirci un passato non appiattito sul presente, resistendo alla tentazione di trasformare ogni storia in storia contemporanea.

Tra i meriti principali di Buonanotte ai suonatori, il romanzo di Umberto Rossi da poco uscito per BookTribu (pp. 320, euro 19,90), c’è sicuramente quello di disegnare un luogo che, a dispetto del suo apparente anonimo squallore, ha un suo specifico spessore culturale. Quello cui l’autore rifiuta di dare nome, identificandolo semplicemente come «il Paesone», ha una sua collocazione reale (la provincia a sud dei Castelli Romani, oltre Pomezia e Lanuvio) ed è colto in un tempo concreto (la fine degli anni Settanta) soprattutto grazie alla lingua che il narratore interno alla storia non solo si sforza di riprodurre nei dialoghi, ma impiega in prima persona, quasi a ribadire che quanto successo quarant’anni fa lo si può capire solo usando le parole di quei tempi.

IL NARRATORE (o meglio, i narratori, ma qui è meglio fermarsi per non svelare le sorprese che attendono il lettore nella parte finale del libro) sa però di rivolgersi non solo a chi, come lui, ha passato i sessanta e sa bene cosa fossero i gettoni telefonici e la Sip, o che termini come «frocio» e «negro» erano un tempo – soprattutto nell’universo maschile, che è quello al centro di questo romanzo – di uso corrente ma, come suggeriscono gli occasionali riferimenti ai «miei studenti», ambisce anche a farsi ascoltare da chi quel mondo senza cellulari e senza social, con i televisori a valvole, due soli canali Rai e partiti ormai estinti, fatica a credere che sia mai esistito.

La musica, come lascia intendere il titolo, è parte essenziale di un testo che, ancora prima di essere letto, vuole essere ascoltato (invece che per capitoli il romanzo è diviso in lati A e B di una serie di dischi). È un auspicio comprensibile, visto che le vicende di cui si parla nel romanzo riguardano proprio i tentativi di mettere assieme un gruppo musicale (il «Gruppo Elettrogeno») che sarà però destinato a esistere più nei desideri che nella realtà, nonostante i «suonatori» dimostrino nel tempo di possedere doti artistiche tutt’altro che disprezzabili.

LE DISCUSSIONI sulla musica che si ascoltava a quei tempi, e come questa andasse rapidamente cambiando con l’arrivo degli anni Ottanta, non sono, per fortuna, un mero sfoggio di competenze nel campo, quanto un segno tangibile del modo in cui quelle passioni abbiano fornito a tanti una possibilità di crescita al contempo emotiva e culturale. Lo stesso si può dire delle disamine tecniche su sintetizzatori, bassi, chitarre a sei o dodici corde, cui la voce narrante si dedica con un amore per il dettaglio pari a quello mostrato da H. D. Thoreau per ogni singolo articolo della fauna e della flora del bosco di Walden.

Dopo poche pagine, il narratore – che sa tenere un buon ritmo e nel suo storytelling è in grado di pigiare su tasti diversi, creando un’ampia varietà di toni ed effetti – dichiara di non rimpiangere «proprio un bel niente di quegli anni. L’adolescenza è un’età di merda, lo pensavo quando ero adolescente e rivedendo quell’età nei miei studenti lo penso ancora. Per cui, mettiamo le cose in chiaro: tutto troverete qui meno che la nostalgia stile ‘meravigliosi quegli anni’». Forse non è proprio così. In questi casi, come consigliava D. H. Lawrence, meglio fidarsi della storia che del narratore. Ma nel nostro caso, scopriremo che anche della storia possiamo fidarci solo fino a un certo punto. E che dunque quel senso di rassegnazione di fronte a un evento che termina improvvisamente, e che si esprime con la frase, «…e buonanotte ai suonatori», è almeno una delle chiavi di lettura del testo.

UMBERTO ROSSI è un valente comparatista e americanista, autore del romanzo fantascientifico L’uomo che ricordava troppo (‎Delos Digital) ma anche di decine di saggi accademici e di due monografie, una delle quali su Philip K. Dick. Non ci si può dunque stupire se a un certo punto si diverte a mischiare le carte e se, nel testo, accanto alle sue passioni musicali, facciano di frequente capolino anche quelle letterarie, da Dick a Joyce, da Eliot a Pynchon.

La forza del testo sta soprattutto nella capacità di andare oltre gli aspetti «di merda» dell’adolescenza, per sottolinearne anche quelli più giocosi e creativi, in particolare a livello linguistico. Perché questo è il tempo in cui ci si impadronisce del mondo dando soprannomi agli amici («il Rustico», «il Mago Pratali»), ribattezzando cose e luoghi (un sintetizzatore diventa «il Gattofono», una chitarra «la Maiolica», una pizzeria «Gecchetti», in ricordo di due Jack non entrati in una partita di poker), e organizzando concerti con gruppi come i «Tre Pini Ensemble di Mostacciano», i «Bisca di Spinaceto», gli «Alma Mater di Torvaianica».

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