La storia dei media americani del Novecento è un campo sterminato, su cui si sono avvicendate le metodologie più diverse, e oggi le analisi più sofisticate sono probabilmente quelle dei cultural studies e delle ricerche sull’audience, che cercano di dipanare gli intrecci tutt’altro che lineari tra pubblico e prodotti spettacolari. Fare di tutto questo un unico racconto, orientarlo leggendone le linee di tendenza fondamentali, è l’impresa colossale in cui si è cimentato Alberto Mario Banti, uno dei nostri maggiori storici del Risorgimento, in Wonderland La cultura di massa da Walt Disney ai giorni nostri (Laterza, pp. 608, euro 29,00), costruendo una specie di grande romanzo traversato dalla musica, dal cinema, dalla televisione, dalla letteratura e dalle tendenze giovanili.

Raffinati sabotaggi
Per funzionare, l’industria culturale deve intercettare tendenze fondamentali, farsi progressiva in anni progressisti e reazionaria in anni reazionari. Ma a volte anticipa, è in ritardo, si lascia sfuggire verità nascoste o evoca fantasmi che non può controllare, oppure si ammanta di ribellismo inglobando le spinte creative più radicali. Il senso circola dalle strutture industriali ai testi al pubblico, in equilibrio tutt’altro che stabile, e attraverso crisi e fratture. Banti identifica due famiglie di protagonisti, che si confrontano ma anche si intrecciano: la controcultura e il mainstream. La distinzione, insomma, non è tra cultura alta e cultura bassa, ma tutta interna alla cultura di massa, il che permette di non cadere nella tentazione di vedere solo il lato manipolatorio dell’industria culturale, e ciononostante di adottare un metro di giudizio anche estetico e politico per capire il senso delle mode e delle tendenze all’interno dei media: perché ci sono state esperienze e figure artistiche più importanti e produttive di altre. C’è una grande cultura di massa, che spesso è riuscita a diventare mainstream senza perdersi, da Dylan ai Beatles.

Eppure le distinzioni, ovviamente, non sono così semplici, e anzi a volte permettono ribaltamenti inopinati, specie se li si considera sotto l’aspetto della fruizione, delle riletture, a volte imprevedibili, cui le sottopone il pubblico. Il cinema hollywoodiano classico, attraverso una serie di raffinati sabotaggi, di rimandi tutt’altro che lineari tra opera e pubblico, attiva sì dei meccanismi di consolazione, ma anche di spiazzamento, di straniamento: i melodrammi di Douglas Sirk o i western di John Ford sono un contenitore esplosivo di contraddizioni che gli eventuali happy end non contraddicono in nulla: perché una volta evocati i fantasmi della classe, della razza, del sesso, non basta una musica e la scritta «The End» a farli rientrare.

Focus sulla musica

In questo senso, è più «controculturale» molto cinema del secondo dopoguerra, Sentieri selvaggi o Quando la moglie è in vacanza, All That Heaven Allows o L’invasione degli ultracorpi, titoli che cercheranno di cavalcare l’onda del Movement, come gli astutissimi Easy Rider o Il laureato (il secondo è un caso di studio esemplare di normalizzazione del romanzo originario di Charles Webb).
Al centro della ricostruzione di Banti c’è soprattutto la musica, che copre quasi i due terzi del volume, con le analisi più approfondite e perspicue dell’intrecciarsi di istanze progressive e di recuperi. Quando si sposta sul cinema, il libro è più rapido, più attento alle mutazioni del costume che alle innovazioni formali. Ad esempio, delle due figure forse più importanti del cinema americano degli anni Settanta, John Cassavetes e Robert Altman, uno non è nemmeno nominato e l’altro è citato di sfuggita per opere in fondo minori.

Il periodo che va dal dopoguerra alla fine del Movement è la stagione dell’americanizzazione del mondo, ma contemporaneamente quello delle sue periodiche crisi. La guerra in Corea, gli omicidi politici degli anni Sessanta, il Vietnam segnano una crisi della «Wonderland» che però si riformula, si critica, fa romanzo di queste perdite dell’innocenza. Le varie arti di massa reagiscono in maniera diversa, e accusano il colpo diversamente nelle loro strutture portanti. Gli anni Sessanta segnano il trionfo del rock e del pop, che proseguono nel decennio successivo, mentre lo stesso periodo Hollywood conosce una piena decadenza, prima che arrivi la generazione di Coppola, Scorsese, Cimino, Spielberg, a immaginare per un attimo di aver preso il potere.

Negli anni Ottanta, una normalizzazione produttiva ed estetica quasi senza ritorno sarà avviata. La grande eredità del decennio precedente non sta, probabilmente, nei film che raccontavano la società in maniera diretta, ma in quelli che l’hanno fatto smontando generi e archetipi: certi horror, alcuni western (Peckinpah), o la fantascienza distopica e il noir (da Bersaglio di notte a Una squillo per l’ispettore Klute).
Il «romanzo» di Banti si fa più sfumato avvicinandosi all’oggi, e non potrebbe essere altrimenti. Le distinzioni tra innovazione e recupero, i gruppi sociali e generazionali di riferimento sono sempre facilmente leggibili. Guardando indietro agli ultimi decenni, l’atteggiamento più frequente è non a caso nostalgico, e l’impressione è che la musica e il cinema abbiano perso la forza generativa, per innestarsi su un riciclo di stili del passato. Lo spiega bene un libro da poco ristampato, Retromania di Simon Reynolds (minimum fax), a partire proprio dalla musica rock.

Controspinte addio
L’organizzazione dei media oggi è particolarmente compatta, e sembra lasciar spazio a pochissime controspinte. L’odierno racconto del media landscape mostra da un lato un deserto di innovazione, volto al passato, e dall’altro una serie di pratiche pulviscolari, autonome, transitanti via media che sono insieme di produzione, distribuzione e consumo, difficili da organizzare in un grande racconto. O forse sembra così a noi che ci siamo dentro.