Considerata una delle più interessanti voci della letteratura latinoamericana contemporanea, Valeria Luiselli ha raggiunto grande notorietà in Italia con Storia dei miei denti, ma aveva già pubblicato Volti nella folla e il libro di cronache Carte false, tutti dalla Nuova Frontiera. La sua scrittura, sia narrativa che saggistica, è all’incrocio di varie tradizioni letterarie e linguistiche, che superando i confini tradizionali formano una mappa intellettuale del tutto originale, proposta al lettore con calviniana leggerezza.
Diamo a lei la parola, nel corso di un recente incontro a Roma: «Se per leggerezza si riferisce a mancanza di solennità sono d’accordo, soprattutto al paragone con il mondo letterario messicano. La mia filiazione è dalla letteratura latinoamericana, ma dove sono cresciuta lo spagnolo non era la lingua dell’istruzione, né quella accademica. Ho cominciato ad avere una mappa più chiara e navigabile della letteratura latinoamericana solo verso i diciassette anni, quando vivevo in India, in una scuola internazionale, dove c’erano ragazzi provenienti da tutta l’America Latina: insieme formammo un gruppo di lettura con il quale lessi Pedro Páramo, Cent’anni di solitudine, Rayuela, che avevo già provato a scorrere senza capirne granché, e García Lorca, o la letteratura spagnola dei secoli precedenti.
In effetti, anche lei – come altri auitori latinoamericani, fra cui Daniel Alarcón o Junot Díaz – utilizza nella sua scrittura sia lo spagnolo che l’inglese: cosa comporta, per lei, muoversi tra lingue diverse?
Io non ho un’identità «latina», come dicono negli Stati Uniti, dove sono arrivata a venticinque anni, come un’adulta già formata: sono cresciuta in Corea del Sud, e poi soprattutto in Sudafrica, il mio inglese è quasi una lingua delle colonie, lontanissimo dall’inglese mainstream, e questo ibrido è oggi forse l’idioma più creativo. All’inizio ho resistito e ho pubblicato i miei primi libri in spagnolo, ma con il tempo è stato abbastanza naturale tornare alla lingua in cui ho imparato a scrivere.
Attraverso un divertito gioco di allusioni onomastiche, lei disegna nel testo un panorama di scrittrici e scrittori ispanoamericani contemporanei – Carlos Yushimito, Vivian Abenshushan, Luigi Amara, Guillermo Fadanelli e altri – che in Italia si cominciano appena a conoscere: lo fa per distinguere una generazione con alcuni tratti comuni?
L’uso di questi nomi non è un omaggio, né disegna una geografia di affinità elettive, corrisponde a persone che sono mie amiche e che sapevo non si sarebbero risentite nel vedersi nominate. Il progetto del libro implicava l’uso di nomi reali, conosciuti ad esempio nel circolo letterario di Città del Messico, ma ignoti in altri paesi, e induceva a osservare, come fossero cerchi concentrici, il modo in cui risuonavano nel testo, quasi fossero anch’essi oggetti narrativi. Se avessi inserito nomi molto conosciuti, i lettori avrebbero stabilito una serie di relazioni, di effetti-specchio, mentre di fronte a sconosciuti si passa oltre. Mi interessava osservare come in diverse comunità linguistiche questi nomi producono diverse interazioni con il tessuto narrativo.
Allo stesso modo, sempre attraverso giochi onomastici, lei allude a una tradizione messicana eccentrica, quella di Julio Torri, di Juan José Arreola, Jorge Ibargüengoitia…
Sì, perché questa è la tradizione con cui mi trovo a mio agio, con cui ho stabilito un dialogo proficuo. Ad esempio in Storia dei miei denti c’è una scena basata su un racconto di Arreola, ambientata in un autobus dal quale un personaggio non riesce a scendere, procurando fastidio agli altri passeggeri: a partire da qui ho costruito un frammento del romanzo. In uno dei saggi di Carte false parlavo di una sorta di «malattia della cittadinanza», e mostravo, con un procedimento per assurdo, la mia difficoltà ad avere un’idea precisa di identità nazionale. Non sono cresciuta intellettualmente leggendo Carlos Fuentes o gli altri scrittori del panorama messicano considerati rappresentanti dell’identità nazionale, l’unico esponente di quella tradizione da cui mi sento influenzata è Juan Rulfo, che ne rappresenta un versante depurato, essenziale.
Per quale ragione lei ha scelto l’ambientazione in un luogo così marginale come il quartiere di Ecatepec, che sebbene conti diversi milioni di persone è uno degli spazi più antiromanzeschi che si possano immaginare a Città del Messico?
Detesto la «folclorizzazione» della povertà e credo di essere riuscita a evitarla. All’inizio la mia non è stata una vera scelta: tutto è nato dal fatto che la collezione della Jumex, mia committente, si trovava lì, anche se proprio alla fine del progetto una parte è stata spostata in un nuovo museo a Polanco, quartiere molto ricco, vicino a un grande centro commerciale. C’è una parte di Ecatepec dove sorgono grandi fabbriche, a lato di due enormi arterie che dividono il quartiere in due, così una parte del progetto consisteva nell’indagare la relazione tra la fabbrica, la galleria d’arte e il quartiere, attraverso il rapporto degli operai con la galleria: dopo ogni puntata, li invitavo a commentare le opere della galleria, e trovavo le loro notazioni molto interessanti, sempre molto arricchenti.
La relazione tra la periferia degradata e l’arte contemporanea si realizza nel romanzo tramite una speciale attenzione al collezionismo di oggetti perduti, di residuati, di resti…
In effetti Storia dei miei denti si sviluppa in uno spazio che è una sorta di discarica del nostro capitalismo malato, con fabbriche che inquinano il cielo e producono enormi quantità di rifiuti, un problema comune a noi tutti. Uno degli artisti presenti nella galleria, il messicano Abraham Cruzvillegas, ha montato un’installazione che ha girato vari musei, dalla Tate di Lodra a altre istituzioni di New York: si intitola Autocostruzione, è totalmente composta di residui, di materiale recuperato da diverse parti, e gran parte della mia riflessione sul riuso e sulla collezione di residuati viene da questo lavoro.
Sia nei romanzi che nelle cronache, o nei saggi lei ha una scrittura rapida, veloce, fatta di frasi brevi, a volte quasi aforistiche; inoltre, alcune parti dei suoi romanzi sembrano saggi, mentre altre cronache potrebbero quasi essere racconti: forse il fatto di non rispettare granché i generi letterari è un’altra caratteristica della sua generazione, non crede?
Tutto quello che scrivo si somiglia, ma non è tanto frutto di un programma quanto della mia esperienza di lettrice, che attraversa tutti i generi. È anche il prodotto di un momento in cui tutti stiamo cercando di redifinire la forma del romanzo, e stiamo cercando di collegare il nostro io a diverse forme di scrittura, cercando come meglio interagire con un mondo sempre più veloce, pieno di rumori. Certo, il romanzo è sempre stato un dispositivo che ci ha aiutato a metterci in relazione con la realtà, a comprenderla, funzionando come un ponte, e credo sia abbastanza naturale che la mia generazione, non solo latinoamericana, cerchi forme più affini al mondo che ci circonda.