Four Tet è un autoctono della musica elettronica. Ha un talento smisurato, è esplosivo e naturale. Per certi versi la sua parabola artistica si sviluppa all’opposto degli usuali percorsi di artisti a lui vicini e assimilabili. Non sembra esserci arrivato a questa musica, pare quasi ci si sia ritrovato per caso. Figlio ribelle, forse anche rinnegato della scena mondiale, molti lo criticano per aver pubblicato il suo decimo album in studio (ma in realtà ci sono in giro remix e brevi ep che alzerebbero il numero delle pubblicazioni) nel bel mezzo di una terribile pandemia. Ma ci sono almeno due buoni motivi per tifare per lui.

IL PRIMO è che dopo tanti anni trascorsi da artista di punta in una casa discografica di punta, da un po’ ne ha formata una tutta sua, la Tex records, e non ci fa mai capire una strategia di pubblicazione e di comunicazione perché molto probabilmente non ne ha, non seguendo regole e tassonomie del mondo dello spettacolo. Anzi, da lì ci svela quali siano le dinamiche familiari: come funzionano sia i comportamenti di facciata e le sovrastrutture della musica (editoria, industria culturale), che la struttura (l’andamento della narrazione, della creatività). Il che ci porta al secondo buon motivo per apprezzarlo: la musica non è raccolta in un concept album, non è un racconto unito, ma brevi affreschi, piccole storie, sedici in tutto, come gli oceani del titolo.

PER MEZZO di questa apparente anormalità di Kieran Hebdan, nato a Londra nel 1977 da mamma indiana, in pezzi come Baby e Love Salad l’ascoltatore viene portato a interrogarsi (e darsi persino una risposta) su questioni del tipo: ma cos’è che trasforma un insieme di suoni elettronici in un vero e proprio pezzo che potrebbe finire dritto dritto in classifica? Molte cose, a iniziare dalla sua capacità di dosare energie, forze e molte conoscenze alla perfezione. E poi la sua mente onnivora, nella quale cultura alta e bassa vanno a braccetto, i virtuosismi formali si accoppiano al lessico più popolare. Ambient, IDM, sequenze jazz, c’è un po’ tutto.
Non tanto, ma per fortuna perché nella sua corsa artistico è forse l’accezione meno qualificante e coinvolgente, tutti i brani sembrano pensati meno per la rielaborazione e gli alti volumi dei concerti e del dancefloor, molto più per la pacifica riproduzione tramite hi-fi domestico. In fondo però la cosa che più colpisce è la capacità di uno dei massimi esponenti, colui che è considerato un po’ ovunque il padre e l’inventore della folktronica, di indagare il tempo e il tempismo.

SI APPELLA alla nostra intelligenza e combatte uno dei parametri più fondanti della società attuale (pre covid-19): i nostri tempi frenetici che non permettono una seconda possibilità, dove l’attenzione crolla subito. Mai, il suo tempismo, ora che di momenti a disposizione ne abbiamo tutti molti ma mai troppi, poteva essere più indovinato.